Una sentenza che ha ribaltato la prima, emessa dal tribunale di Rieti nel 2013, dove l’imputato era stato condannato solo per lesioni personali gravi a due anni e nove mesi, giudizio poi riformato dalla Corte di Appello di Roma che a Vincenzo F. aveva contestato l’aggravante dei futili motivi: quel giorno, quando sferrò il fendente (il coltello non è mai stato ritrovato ndr), voleva uccidere il suo amico Carlo e solo per un caso la lama, penetrata per dieci centimetri, non interessò organi vitali ma solo l’intestino tenue, provocando la perdita di un litro e mezzo di sangue. Proprio la diversa valutazione attorno alla natura della ferita, raggiunta da due diversi organi giudicanti, ha determinato la sorte processuale dell’imputato.
Se per il tribunale la parte colpita (l’addome) non coincideva con un organo vitale, di opposto parere si era dimostrata la Corte di Appello, ritenendo «erronea la valutazione dei giudici di primo grado in quanto il fendente aveva interessato una parte corporea nella quale si trovano numerosi organi vitali, tra i quali l’aorta addominale, le vene iliache e le vene parietali che, se recisi, avrebbero portato al dissanguamento rapido della vittima e al suo decesso».
Decisiva fu la deposizione resa al processo dai due medici del pronto soccorso del de Lellis dove Carlo O. era stato trasportato in autombulanza: «Seppure l’intestino non può essere ritenuto un organo vitale, il suo perforamento è certamente idoneo a mettere in pericolo di vita il paziente determinando una peritonite da perforazione e uno choc emorragico che, peraltro, in questo caso si verificò».
La vittima fu però operata in tempo e fu salvata. La difesa ha tentato due strade: il mancato ritrovamento del coltello e la mancata acquisizione dei filmati con i quali la Digos aveva ripreso l’intera manifestazione. Ma non sufficiente per la Cassazione.
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