Rieti, nel 1999 arrivò Ivan. Ora la famiglia sabina pronta a ospitare i genitori dall’Ucraina

L'ucraino Ivan alla discussione di laurea
di Raffaella Di Claudio
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Giovedì 3 Marzo 2022, 00:10

RIETI - La prima volta che Ivan arrivò a casa di Massimo Di Rao e di sua moglie Giovanna, a Poggio Catino, aveva sei anni. Era il 1999. Arrivò insieme ad altri coetanei connazionali su uno scuolabus del Comune di Salisano. Erano i bambini di Chernobyl, coloro che vivevano nei pressi della centrale nucleare dove il 26 aprile 1986 esplose un reattore e che, grazie al lavoro di tante associazioni, erano accolti da molte famiglie sabine. Venivano chiamati “soggiorni di risanamento”, attraverso i quali i piccoli ospiti ucraini potevano vivere lontano dalle contaminazioni, ma erano molto di più. In quei mesi di accoglienza nascevano rapporti indissolubili. Ivan, ora quasi trentenne e laureato in Ingegneria meccanica, anche dopo la fine dei soggiorni (svolti dai 6 ai 18 anni) ha sempre mantenuto i contatti con Massimo e Giovanna. Veniva in Italia con il visto turistico e loro andavano in Ucraina, come hanno fatto il giorno della laurea. Ora è rimasto con la nonna di 90 anni nel sobborgo di Kiev in cui viveva insieme al resto della famiglia. Attende la chiamata al fronte, ma intanto cerca un posto sicuro per i genitori, la sorella, il marito (che li sta accompagnando) e le nipotine, in fuga su due automobili. E la casa di Massimo e Giovanna, oggi, come fu per lui, può essere nuovamente un porto sicuro. Un rifugio, non sotterraneo ma lontano migliaia di chilometri dalle bombe, dove trovare accoglienza e salvezza.

Il racconto. «Quando abbiamo capito che la situazione in Ucraina stava precipitando li abbiamo chiamati per chiedere loro se stessero bene - racconta Massimo, pensionato di 71 anni - e abbiamo saputo che, non sentendosi al sicuro, i genitori e la sorella, che ha tre bimbe, avevano deciso di partire.

Abbiamo dato subito la disponibilità ad accoglierli. Si sono mossi verso L’viv (Leopoli), ma la bambina di tre mesi si è sentita male e hanno trovato un rifugio temporaneo da un amico del padre di Ivan. Devono attendere che la bimba stia meglio e risolvere alcuni problemi: per il forte stress, alla mamma è andato via il latte». Massimo e Giovanna sono molto preoccupati e vogliono fare la propria parte. «Ivan - continua Massimo - parla benissimo italiano, con i familiari, invece, comunichiamo in inglese e in questi giorni ci teniamo in contatto attraverso altri social, perché ritengono che whatsapp non sia abbastanza sicuro e possa essere controllato. Vedere una famiglia che percepisce un pericolo tale da salire in macchina e scappare ci tocca profondamente. Stiamo capendo quando ripartiranno e valutando se andare a prenderli, qualora fosse più facile, per noi, attraversare la frontiera nei luoghi lontani dal conflitto. Siamo, tra l’altro - aggiunge - molto preoccupati per Ivan, perché la colonna dei blindati russi che muove verso Kiev transita proprio nella direzione del centro abitato dove si trova lui, e con altissima probabilità verrà chiamato a combattere. In più, a est di Kiev, c’è una grande centrale elettrica e molte centrali nucleari: il pericolo di disagi e incidenti gravissimi è reale». Sono ore di apprensione. Massimo e Giovanna sperano «nel buon esito delle trattative di pace» e sfogliano le foto scattate a Ivan dal 1999. Tracce indelebili di vita condivisa nonostante le distanze. Testimonianza di un legame profondo che, 20 anni dopo, si conferma mano tesa cui aggrapparsi nel momento del bisogno.

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