RIETI - La prima volta che Ivan arrivò a casa di Massimo Di Rao e di sua moglie Giovanna, a Poggio Catino, aveva sei anni. Era il 1999. Arrivò insieme ad altri coetanei connazionali su uno scuolabus del Comune di Salisano. Erano i bambini di Chernobyl, coloro che vivevano nei pressi della centrale nucleare dove il 26 aprile 1986 esplose un reattore e che, grazie al lavoro di tante associazioni, erano accolti da molte famiglie sabine. Venivano chiamati “soggiorni di risanamento”, attraverso i quali i piccoli ospiti ucraini potevano vivere lontano dalle contaminazioni, ma erano molto di più. In quei mesi di accoglienza nascevano rapporti indissolubili. Ivan, ora quasi trentenne e laureato in Ingegneria meccanica, anche dopo la fine dei soggiorni (svolti dai 6 ai 18 anni) ha sempre mantenuto i contatti con Massimo e Giovanna. Veniva in Italia con il visto turistico e loro andavano in Ucraina, come hanno fatto il giorno della laurea. Ora è rimasto con la nonna di 90 anni nel sobborgo di Kiev in cui viveva insieme al resto della famiglia. Attende la chiamata al fronte, ma intanto cerca un posto sicuro per i genitori, la sorella, il marito (che li sta accompagnando) e le nipotine, in fuga su due automobili. E la casa di Massimo e Giovanna, oggi, come fu per lui, può essere nuovamente un porto sicuro. Un rifugio, non sotterraneo ma lontano migliaia di chilometri dalle bombe, dove trovare accoglienza e salvezza.
Il racconto. «Quando abbiamo capito che la situazione in Ucraina stava precipitando li abbiamo chiamati per chiedere loro se stessero bene - racconta Massimo, pensionato di 71 anni - e abbiamo saputo che, non sentendosi al sicuro, i genitori e la sorella, che ha tre bimbe, avevano deciso di partire.