Rieti, l’angoscia di Anzhelika, interprete ucraina al Tribunale di Rieti, per il figlio: «Alessandro combatte, temo per lui»

Anzhelika
di Sabrina Vecchi
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Martedì 1 Marzo 2022, 00:10

RIETI - «Il mio pensiero è per le mamme, tutte le mamme, non importa a quale popolo appartengano. Devono trovare le mamme, far avere notizie a queste donne in pena». Anzhelika ha 45 anni ed è bellissima. E’ originaria di Leopoli, città dell’Ucraina occidentale, a circa 70 chilometri dal confine con la Polonia. Da circa cinque anni vive a Rieti, lavora come interprete al tribunale giudiziario: «Sono qui, ma con il cuore e l’anima sono nel mio Paese che combatte, che resiste». 
Anzhelika arriva in Italia nel 2001, per uno scambio culturale universitario per traduttori ed interpreti, in una prestigiosa scuola di Roma, zona centrale. Poi sceglie con gioia di vivere e lavorare a Rieti, «la città ideale per vivere. Tranquilla, carina, ottima per far crescere i figli». Di figli ne cresce tre, due vivono nella tranquillità reatina insieme a lei e il marito, mentre il più grande, il ventisettenne Alessandro, sta vivendo l’inferno al suo Paese d’origine. 
«Lavorava in Ucraina, ĺì viveva tranquillo insieme ai nonni: ed ora è successo tutto questo. Deve finire, deve finire presto, subito». Appena saputo dell’inizio del conflitto, Anzhelika ha fatto immediatamente le valigie per partire, per tornare al suo Paese, «perché è giusto sostenere i propri connazionali, era mio dovere tornare in patria a lottare con loro». A farla desistere, il marito e le necessità dei due figli piccoli, ma soprattutto Alessandro: «Non vuole assolutamente che io vada da lui, e non vuole venire in Italia, anche se potrebbe. Lo capisco: non si scappa dalla propria patria, soprattutto in questi momenti. La patria si sostiene, non si abbandona». La situazione raccontata al telefono dal ragazzo è tragica ed inverosimile: assedi, esplosioni, carenza di viveri, paura. La stazione ferroviaria, vicina al confine, è presa d’assalto da chi scappa dal peggio. «Per fortuna le comunicazioni sono ancora buone, riesco a sentirlo spesso. Dei miei colleghi russi che sono a Mosca, invece, nessuna traccia. Ho provato a contattarli su Instagram, su Telegram, via mail, via chat, ma nulla. Mi rispondono solo quelli che sono in Europa: immagino che le comunicazioni siano bloccate perché non si diffondano informazioni, sembra di essere tornati ai tempi dell’ex Unione Sovietica». 
I sospiri sono quelli di una mamma in pena appesa al telefono, che non dorme da giorni in attesa di notizie del figlio più grande, che tuttavia la tranquillizza e la rassicura: «Mi dice che si sono organizzati, che stanno resistendo come possono, aiutandosi a vicenda e cercando di mettere in salvo prima di tutto donne e bambini. Non avrei creduto neppure io che il mio popolo affrontasse questa guerra così a testa alta, che resistesse tanto. Sono orgogliosa della mia gente e del mio presidente Zelensky sceso in mezzo a loro: vorrei essere lì a combattere, ad aiutare». Anche a Rieti, come in tutta Italia, è scattata la solidarietà per il popolo ucraino: «Sento vicinanza ovunque, grazie a Dio. Ma adesso smettano di bombardare, se ne tornino nel loro Paese, facciano ordine lì: da noi nessuno li ha chiamati». 
Anzhelika prosegue a seguire la situazione a distanza, a mandare messaggi ai suoi amici russi. Ma sempre invano: «Nessuna notizia da loro. Hanno telefoni e carte di credito bloccate, sono in difficoltà. Del resto, i civili sono sempre vittime nelle decisioni dei grandi: loro fanno le cose e noi le paghiamo, tutti. I soldati russi sono giovanissimi, ne hanno mandati a combattere circa cinquemila, molti erano semplicemente partiti per un’esercitazione, invece andavano in guerra». E torna il primo pensiero: «Alle loro mamme chi pensa? Noi mamme non abbiamo pace in questa situazione. Abbiamo tutte lo stesso dolore nel cuore».

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