Addio a Mario Corso, il «piede sinistro di Dio»

Addio a Mario Corso, il piede sinistro di Dio
di Piero Mei
4 Minuti di Lettura
Sabato 20 Giugno 2020, 11:26 - Ultimo aggiornamento: 12:17

Mario Corso, che è scomparso a 78 anni, è stato un protagonista del calcio a cavallo degli Anni Sessanta, un po’ prima e un po’ dopo, e della “Grande Inter”, quella di Angelo Moratti ed HH, Helenio Herrera. Aveva una specialità: la “foglia morta”.

LEGGI ANCHE Mario Corso morto, aveva 78 anni: addio alla stella della Grande Inter

Lo hanno chiamato in vari modi: Mariolino, con un tenero diminutivo dei tanti che andavano di moda ai tempi (Sandrino Mazzola, Luisito Suarez) oppure Mandrake, che accendeva pensieri di imprese impossibili. Il cittì di Israele ebbe a dire, dopo averlo affrontato ed esserne uscito sconfitto, «siamo stati battuti dal piede sinistro di Dio». «Meglio avere un piede solo buono che non due scarsi», rispondeva Corso. Il suo cognome veniva irriso da Giani Brera, che ne sottolineava la «pigrizia»: «Corso, participio passato del verbo correre», vaticinava il Vate. E Mariolino rispondeva: «Se stati quindici anni all’Inter significa che corri». Aggiungeva: «E poi chi deve correre è la palla».

Ci restò per tutto quel periodo, quattro scudetti, due coppe dei campioni e due intercontinentali, anche se Herrera, con cui si prendeva poco, ogni anno lo metteva in testa alla lista delle cessioni. Angelo Moratti prendeva il foglietto, leggeva e diceva al Mago: «Quest’anno no, semmai l’anno prossimo». L’anno prossimo venne quando Moratti aveva ceduto l’Inter a Fraizzoli ed Herrera era tornato all’Inter: si vendicò in maglia del Genoa segnandogli un gol di testa, una rarità assoluta tra le 94 reti realizzate in serie A.

Herrera masticò amaro, come quella olta che nello spogliatoio teneva una delle sue concioni memorabili (i discorsi motivazionali di oggi inventati in anticipo) e alla fine del sermone sentì Corso dire «vada a sentire cosa ne pensano nello spogliatoio a fianco».
 


Con gli allenatori non si prendeva granché. Heriberto Herrera? «Mi voleva far allenare come Bedin». Al cittì azzurro di allora, Giovanni Ferrari, che lo aveva escluso dalla lista per il mondiale di Cile ’82 dedicò, dal campo alla tribuna, dopo un gol in amichevole Inter-Cecoslovacchia che aveva mandato in delirio il suo pubblico, un plateale gesto dell’ombrello: addio Nazionale.

La sua “foglia morta” merita un’attenzione speciale: ha ispirato scrittori e poeti. Edmondo Berselli gli dedicò un suo saggio, “Il più mancino dei tiri”; Pier Paolo Pasolini scrisse “Corso gioca un calcio in poesia, ma non è un ‘poeta realista’ è un po’ maudit, extravagante”. Lui quel tiro che era un elogio della lentezza e del volo, lo praticava fin da ragazzo, quando restava ore e ore in campo a provarlo, seguendo il consiglio di Nereo Marini, il suo primo allenatore, quello che lo creò adolescente nelle squadrette del veronese (lì era nato nel ’41, in agosto) da dove lo pescò l’Inter, quasi una giunta nell’acquisto di tre giovani, nove milioni il prezzo, settantamila lire al mese l’ingaggio nel 1958.

Portava il numero 11 ma non era un’ala sinistra. Forse un trequartista, un regista, un centrocampista, un attaccante, uno che non potevi mettere su di una lavagna. Dovevi metterlo in campo, ci pensava lui quando aveva voglia di pensarci. Diceva un suo compagno, Tagnin: «Se c’è Suarez in campo sai che non puoi perdere, se c’è Mariolino che puoi vincere». C’era, con quei suoi calzettoni arrotolati, a imitazione del suo idolo, Omar Sivori, e con quella foglia morta (a folha seca) che era la firma di un altro fenomeno, il brasiliano Didi, al quale Corso tolse l’esclusiva del gesto.

© RIPRODUZIONE RISERVATA