Donne e lavoro: quanto sono veramente felici?

Donne e lavoro: quanto sono veramente felici?
di Sonia Montegiove
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Lunedì 15 Marzo 2021, 14:20 - Ultimo aggiornamento: 14:21

Esiste un gap tra felicità e benessere mostrati agli altri e quelli effettivamente “sentiti”, percepiti, dalle donne, probabilmente portate a mascherare il proprio senso di insoddisfazione. Per le donne molto più che per gli uomini: un 39% (a fronte di un 36% degli uomini) ritiene che gli altri possano considerarle felici, a fronte di un 26% (31 per gli uomini) che effettivamente si sente felice. Questa una delle “spie” accese dal primo Osservatorio italiano su felicità e benessere, istituito da Sandro Formica, Ph.D. della Florida International University,  e da Elga Corricelli ed Elisabetta Dallavalle, fondatrici di ELEhub, società benefit che si occupa di trasformazione positiva. 

«Con il nostro osservatorio permanente – afferma Elga Corricelli, che dopo una lunga carriera come Coo e Board member di una importante multinazionale si dedica oggi a portare la trasformazione positiva in azienda – vogliamo misurare lo stato attuale della felicità e del benessere dei lavoratori italiani sia come individui che come collaboratori all’interno delle aziende. Vogliamo farlo perché sappiamo che dalla felicità discende il benessere organizzativo e con esso anche la aumentata produttività. Non consideriamo la felicità un sentimento fugace ma una meta-competenza, che come tutte le meta competenze può essere allenata e può permettere, attraverso l’inclusività  e le ricchezze dei singoli, un nuovo benessere organizzativo”.

I dati del primo osservatorio, che ha coinvolto 1.314 persone tra lavoratori dipendenti (72,3%) e liberi professionisti  (27,7%) appartenenti alle 4 generazioni (Baby Boomers, Generazione X, Millennials, Generazione Z), mostrano una popolazione mediamente soddisfatta, ma con una preoccupante mancanza di allineamento valoriale tra lavoratori e imprese e di orientamento al futuro. Il 16% degli intervistati ritiene che l’affermazione “esprimo le mie emozioni senza essere giudicato” nell’ambiente di lavoro sia assolutamente falsa, mentre quasi il 30% si ritiene poco concorde con l’affermazione “i miei meriti vengono sempre riconosciuti”.

“L’obiettivo che ci siamo posti – continua Corricelli – è quello di far scaturire dei dubbi, delle domande rispetto a quanto emerge dalla ricerca, proprio al fine di far emergere delle criticità per costruire, insieme ad aziende e organizzazioni pubbliche, un percorso che possa colmare i gap di felicità e benessere”.

Le donne si sentono davvero realizzate al lavoro?

“Un dato da attenzionare emerso da questa prima ricerca – afferma Elga Corricelli – mostra come le donne, a differenza degli uomini, mostrino un disagio sia rispetto all’autorealizzazione in termini di compensi ricevuti che di possibilità di sviluppo di carriera. Il motivo chiaramente non sappiamo quale sia con certezza. Potrebbe essere legato al fatto che la donna non riesca a esprimere i propri bisogni o che non voglia esprimerli in quanto il contesto lavorativo non glielo consenta. In entrambi i casi ci troveremmo di fronte a un problema che non possiamo sottovalutare”. Come non è da sottovalutare il fatto che tra i rappresentanti della generazione Z (ovvero i giovanissimi nati tra il 1997 e il 2012) solo il 19% si trova concorde a ritenere che la propria vita sia vicina al proprio ideale, contro il 28% dei Baby Boomers (i nati tra il 1946 e il 1964). “Questo ci dice che c’è una generazione di giovani che non accetterà di considerarsi “felice” solo per il fatto di avere un lavoro, come pare di leggere dai dati dei Baby Boomers. Una generazione che chiede allineamento culturale e sceglierà di lavorare con le aziende che rispettano i propri valori. I disagi esposti devono fungere da monito e riteniamo fondamentale lavorare sulla componente emotiva e sul potenziale che talvolta sembra rimanere inespresso”.

Come colmare il gap di felicità?

“Dobbiamo focalizzarci su ascolto e co-costruzione” - chiosa Corricelli. “Abbiamo bisogno di aziende e organizzazioni pubbliche che possano costruire percorsi di benessere, dove le persone possano imparare a rinunciare a giudicare per essere curiose di scoprire le unicità degli altri e valorizzarle. In questo la scuola ha un ruolo fondamentale, perché può educare fin dalla primaria a stabilire fiducia e dialogo, a essere inclusivi, a costruire qualcosa di innovativo fondendo le idee di tutti, a usare le proprie emozioni nell’accogliere l’altro. Possiamo stimolare i ragazzi e le ragazze alla scoperta dei propri talenti, del proprio purpose e nell’uso del capitale potentissimo che tutti noi abbiamo: l’immaginazione, che stimola la curiosità e porta innovazione”.

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