Papa Francesco: «Durante la dittatura in Argentina ho fatto tutto per liberare i due gesuiti catturati»

Bergoglio fa luce su un capitolo della sua vita

Papa Francesco: «Durante la dittatura in Argentina ho fatto tutto per liberare i due gesuiti catturati»
di Franca Giansoldati
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Martedì 9 Maggio 2023, 16:22 - Ultimo aggiornamento: 10 Maggio, 10:11

Città del Vaticano – Papa Francesco fa luce (definitivamente) su uno dei capitoli della sua vita più dolorosi: quello relativo alle feroci polemiche sorte in Argentina al momento della sua elezione, nel 2013, relative al suo atteggiamento durante la dittatura militare, quando ricopriva il ruolo di provinciale della Compagnia di Gesù. In particolare Bergoglio venne accusato ingiustamente di non aver protetto due sacerdoti gesuiti, Jalics e Orlando Yorio, sequestrati dai militari durante il regime di Videla e torturati nelle prigioni perchè accusati di essere dei guerriglieri. Bergoglio - che aveva avvertito i sacerdoti del pericolo imminente - fece tutto quello che poteva e incontrò anche i vertici militari della dittatura per intercedere in loro favore dopo la cattura ma fu inutile. I due furono liberati dopo diversi mesi.

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Quel periodo cupo è stato affrontato durante l'ultimo viaggio in Ungheria parlando con i membri della Compagnia di Gesù e il colloquio particolarmente toccante è stato pubblicato dalla Civiltà Cattolica. «Io ho fatto quel che sentivo di fare per difenderli. È stata una vicenda molto dolorosa».

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Bergoglio ha raccontato che i padri Ferenc Jálics e Orlando Yorio lavoravano in un quartiere popolare e lavoravano bene. «Jálics è stato mio padre spirituale e confessore durante il primo e secondo anno di teologia.

Nel quartiere dove lavorava c’era una cellula di guerriglia. Ma i due gesuiti non avevano niente a che fare con loro: erano pastori, non politici. Ma sono stati fatti prigionieri da innocenti. Anche se non hanno trovato niente per accusarli loro hanno dovuto fare nove mesi di carcere, subendo minacce e torture. Poi sono stati liberati, ma queste cose lasciano ferite profonde. Jálics è venuto subito da me e abbiamo parlato. Io gli ho consigliato di andare da sua madre negli Stati Uniti. La situazione era davvero troppo confusa e incerta. Poi si è sviluppata la leggenda che sarei stato io a consegnarli perché fossero imprigionati. Sappiate che un mese fa la Conferenza episcopale argentina ha pubblicato due volumi dei tre previsti con tutti i documenti relativi a quanto accaduto tra la Chiesa e i militari. Trovate tutto lì».

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Ecco i fatti come si svolsero realmente. «Quando sono andati via i militari, Jálics mi ha chiesto il permesso di venire per fare un corso di esercizi spirituali in Argentina. Io l’ho fatto venire, e abbiamo anche celebrato la messa insieme. Poi l’ho rivisto da arcivescovo e poi ancora anche da Papa: è venuto a Roma a vedermi. Avevamo tenuto sempre questo rapporto. Ma quando venne l’ultima volta a trovarmi in Vaticano, io vedevo che lui soffriva perché non sapeva come parlarmi. C’era una distanza. Le ferite di quegli anni passati sono rimaste sia in me sia in lui, perché entrambi abbiamo vissuto quella persecuzione».

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Le accuse contro il Papa arrivarono successivamente, e  nel 2010 da arcivescovo fu interrogato per quattro ore di fila da un pool di magistrati argentini. «Alcuni del governo volevano tagliarmi la testa, e hanno tirato fuori non tanto questo problema di Jálics, ma hanno messo in questione proprio tutto il mio modo di agire durante la dittatura. Mi hanno, quindi, chiamato in giudizio. A me è stata data la possibilità di scegliere dove tenere l’interrogatorio. Io ho scelto di farlo in episcopio. È durato 4 ore e 10 minuti. Uno dei giudici era molto insistente sul mio modo di comportarmi. Io ho sempre risposto con verità. Ma, dal mio punto di vista, l’unica domanda seria, con fondamento, ben fatta, è venuta dall’avvocato che apparteneva al partito comunista. E grazie a quella domanda le cose si sono chiarite. Alla fine, fu accertata la mia innocenza. Ma in quel giudizio non si parlò quasi per nulla di Jàlics, ma di altri casi di persone che avevano chiesto aiuto».

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Papa Francesco a Roma ebbe modo di incontrare uno di quei giudici. «Uno insieme a un gruppo di argentini. Non lo avevo riconosciuto, ma avevo l’impressione di averlo visto. Io lo guardavo, lo guardavo. Tra me e me dicevo: ma io lo conosco. Mi ha abbracciato e se n’è andato. L’ho poi rivisto ancora e si è presentato. Gli ho detto: io merito cento volte una punizione, ma non per quel motivo. Gli ho detto di stare in pace con questa storia. Sì, io merito un giudizio per i miei peccati, ma su questo punto voglio essere chiaro. È venuto anche un altro dei tre giudici, e mi ha detto chiaramente che avevano ricevuto indicazione dal governo di condannarmi».

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