Il Covid stronca padre Jalics, il gesuita torturato durante la dittatura in Argentina che si riconciliò con il Papa

Il Covid stronca padre Jalics, il gesuita torturato durante la dittatura in Argentina che si riconciliò con il Papa
di Franca Giansoldati
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Lunedì 15 Febbraio 2021, 12:17

Città del Vaticano - Il suo nome - padre Franz Jalics – aveva girato il mondo perché era tra coloro che accusavano Papa Bergoglio di una sua supposta complicità con la durissima dittatura della giunta militare. Una accusa che poi si rivelerà totalmente infondata e falsa. Padre Jalics è morto all'età di 93 anni, stroncato dal covid, a Budapest dove viveva da anni. Il gesuita si era riconciliato con il pontefice all'indomani della sua elezione cercando così di dissipare la cortina di dubbi e leggende nere sulla gestione dell'allora provinciale della Compagnia di Gesù. 

Verso la fine degli anni Settanta padre Jalics, insieme ad un altro gesuita padre Yorio, decise di trasferirsi in un quartiere poverissimo di Buenos Aires per essere più vicini ai poveri.

Il clima in Argentina era terribile, la giunta militare perseguitava tutti coloro che erano in odore di essere sovversivi e di sinistra. Per proteggerli Bergoglio chiese loro di lasciare quel quartiere, evitare così di diventare dei potenziali obiettivi dei militari, di prendere le distanze dalla Teologia della Liberazione (che all'epoca era considerata una corrente estremista anche dal Vaticano). I due gesuiti non erano favorevoli a compromessi e decisero di dimettersi, furono espulsi dalla Compagnia di Gesù e di lì a poco vennero arrestati dai militari, come spesso succedeva a coloro sospettati di essere sovversivi. Entrambi i gesuiti furono torturati e sequestrati per diversi mesi. Bergoglio pur di liberarli chiese una udienza a Videla, il 'macellaio' argentino che guidava la giunta militare. 

Mentre padre Jalics seppe riconciliarsi con quel periodo e anche con Papa Bergoglio, padre Yorio è morto senza averlo mai fatto. Jalics è stato ricevuto anche pochi mesi dopo l'elezione di Francesco a Santa Marta, nel 2013.

In un comunicato Jalics aveva raccontato la sua versione dei fatti: «Vivevo dal 1957 a Buenos Aires, e nel 1974, mosso da intimo desiderio di vivere il Vangelo e di essere attento alla terribile povertà, con il permesso dell'arcivescovo Aramburu e dell'allora padre provinciale Jorge Mario Bergoglio mi sono trasferito con un confratello in una favela, una baraccopoli della città. Da lì abbiamo continuato le nostre attività di insegnamento all'università. In quella situazione analoga ad una guerra civile la giunta militare ha ucciso in uno, due anni, circa 30mila persone, guerriglieri della sinistra come anche incolpevoli civili. Noi due nella favela non avevamo contatti né con la giunta né con la guerriglia. Per la mancanza di informazioni di allora e per false informazioni fornite appositamente la nostra posizione era stata fraintesa anche nella Chiesa. In quel periodo abbiamo perso il contatto con uno dei nostri collaboratori laici, che si era unito alla guerriglia. Dopo il suo arresto e il suo interrogatorio da parte dei militari della giunta, avvenuto nove mesi più tardi, questi ultimi hanno appreso che aveva collaborato con noi. Per questo siamo stati arrestati, con la supposizione che anche noi avessimo a che fare con la guerriglia. Dopo un interrogatorio di cinque giorni, l'ufficiale che aveva condotto l'interrogatorio stesso si è congedato con queste parole: 'Padri, voi non avete colpe e mi impegnerò per farvi tornare nei quartieri poveri'. Nonostante quell'impegno restammo incarcerati, per noi inspiegabilmente, per altri cinque mesi, bendati e con le mani legate. Non posso prendere alcuna posizione riguardo al ruolo di Jorge Mario Bergoglio. Dopo la nostra liberazione ho lasciato l'Argentina. Solo anni dopo abbiamo avuto la possibilità di parlare di quegli avvenimenti con padre Bergoglio, che nel frattempo era stato nominato arcivescovo di Buenos Aires. Dopo quel colloquio abbiamo celebrato insieme una messa pubblica e ci siamo abbracciati solennemente. Sono riconciliato con quegli eventi e per me quella vicenda è conclusa. A papa Francesco auguro la ricca benedizione di Dio per il suo ufficio». 

In un secondo comunicato chiariva che «Orlando Yorio ed io non fummo denunciati da padre Bergoglio. Come avevo chiarito nella mia precedente spiegazione, fummo incarcerati a causa di una catechista che dapprima lavorava con noi e poi entrò nella guerriglia (a causa di un errore di traduzione nella precedente spiegazione si parlava di un uomo). Per tre quarti di anno non l'abbiamo vista. Due o tre giorni dopo il suo arresto fummo arrestati anche noi. L'ufficiale che mi interrogò controllò i miei documenti. Quando vide che ero nato a Budapest, mi ritenne una spia. Nella provincia dei gesuiti argentini e nei circoli ecclesiali già negli anni precedenti erano state diffuse false informazioni sul fatto che ci saremmo trasferiti nella favela perché anche noi appartenevamo alla guerriglia». 

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