Dylan, ultimo cantore della vita agra dei più deboli

di Giulio Sapelli
6 Minuti di Lettura
Venerdì 14 Ottobre 2016, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 00:07
«Città irreale/Sotto la fosca nebbia di un’alba d’inverno/Una folla traboccava sul London Bridge, tanta/Ch’io non credevo che morte tanta ne avesse disfatta». Ascoltando l’ultimo album di Bob Dylan (Modern Times) vengono in mente i versi del più grande, insieme a Ezra Pound, poeta del Novecento: il Thomas Eliot de “La sepoltura dei morti”.

Opera che apre la straziante canzone de “La terra desolata”. Senonché Dylan non canta l’angoscia della borghesia londinese, dove «le donne parlano di Michelangelo» e dell’umanità che ha fondato la civiltà occidentale. No. Dylan, in questa sua ultima opera, che è un insieme di canzoni che ricordano i Salmi, ricordano le melodie dell’ebraismo e del cristianesimo più intimamente vissuto, egli canta la vita e la desolazione della classe operaia nord americana con una prospettiva universale che non pensavo di poter ancora ritrovare.

Ed è vero, come egli stesso ha riconosciuto, che questo insieme di composizioni salmodiate sulla scorta di una raffinatissima serie di citazioni del repertorio folk nord americano sconosciuto ai più, travolge tutta la sua precedente opera e la rifonda completamente. In quest’opera c’è una capacità di rinnovamento artistico veramente rara. Ed è oltremodo significativo che tale rinnovamento avvenga nella «Terra del silenzio», ossia avendo come «città irreale» quella classe operaia che è scomparsa dalle scienze sociali e dall’immaginario collettivo. Dylan ci dà una grande lezione di realismo e di coraggio morale.

E lo fa con un continuo ascendere verso la meditazione religiosa e il mescolare tale meditazione con la quotidianità più prosaica, come era appunto proprio di Eliot. Certo, il paragone sembra improprio, quasi sacrilego per gli anglisti. Mi si perdoni. Viviamo in tempi difficili, dove dopo «La terra desolata» non c’è che il deserto cognitivo del nuovo che avanza. L’arte precede la scienza. E in questo deserto si alza la voce e la musica di Dylan per ricordare coloro che esistono ma sono invisibili: gli operai. Bob sfida l’industria culturale con i suoi testi - più che con la sua musica - che sono una vera pietra miliare della poesia nord americana. Si inizia con «Mi alzerò domani mattina per percorrere questa difficile strada/Un bel giorno sarò a fianco del mio re» (Tuono sulla montagna), e questo re è un Re escatologico che riscatta dalla fatica e dal sudore, che riscatta dal mondo gonfio di cupidigia. «Il blues del lavoratore» è l’acme di questo canto. Nessuna concessione alla retorica, nessuna vulgata consolatoria: solo un intreccio tra il sacro - la speranza in un Dio che può salvare purché si riveli - e una realtà industriale e capitalistica dinanzi alla quale si è disarmati. Perché il potere contro cui l’operaio si confronta è troppo forte.

Ma c’è anche l’invettiva, come c’è la protesta contro la guerra: «Vergognati della tua avidità, vergognati dei tuoi piani malvagi», quei piani contro cui ogni giorno il lavoro operaio di confronta. Sì, perché mentre l’accumulazione e i profitti crescono, Bob ci ricorda, in «Quando verrà il turno» che un lavoro senza senso, senza significato, non è altro che un continuo sentirsi estraniato dalla vita stessa: «Viviamo e moriamo, il perché non sappiamo/ma io sarò con te quando verrà il turno».

E’ una metafisica della vita operaia: il turno diviene il turno del lavoro e insieme il turno della vita e del morire e solo la «celeste visione» che appare a chi lavora come una chimera può riscattare da una quotidianità ossessivamente subita. La celeste visione è anche la visione di un amore a cui si offre il meglio del creato: «Ho colto la rosa e l’ho messa tra i miei vestiti/In questo terreno dominio mai mi vedrai ostile, di dolore e delusione pieno/mai mi vedrai ostile/Ti debbo il mio cuore, ed è una verità sincera/ed io sarò con te quando verrà il turno». E’ una classe operaia disperata ma piena e gonfia di amore, quella di Dylan, che trova il senso non più nel lavoro ma nelle gioie imperfette e brevi di una vita strappata come l’attimo fuggente alla reificazione e all’alienazione.

In questo c’è molto di ebraico e di escatologico, quasi come se la vita della sofferenza fosse un testo “sotto” il quale, nell’interpretazione del quale, si può ritrovare la salvezza e la speranza: «Oltre l’orizzonte azzurri sono i cieli/e io ho più del tempo di una vita per amarti»: così termina quella bellissima canzone che è «Oltre l’orizzonte» e che costituisce forse la segreta speranza che, come una lingua di fuoco salvifico, sottile come un’anima sperduta, circola per tutto questo suo cantare: «Io non parlo, ecco il segno della salvezza.(…) Nel mistico giardino stanotte sono uscito/Non parlo, soltanto cammino/attraverso questo stanco mondo di dolore. La preghiera, dicono, ha il potere di guarire» e se è solo la preghiera a salvare l’operaio che dubita ogni giorno di avere il suo salario, questo è perché «L’intero mondo è colmo di speculazione/Mangio grasso di maiale in una città di maiali/Brucia il cuore, ancora si strugge/Ma io sfrutterò l’ultima ora che mi resta». 

«Non parlo» è un inno a una rivolta anarchica che è l’attesa di un Messia che Dylan sa che non può più venire e che si concede a lui con i simboli e i riti che ritroviamo in tutte le sue canzoni di questo album, che parla sì della classe operaia, ma anche della perdita e del riscatto del sacro, della secolarizzazione e insieme, attraverso l’amore, della lotta per ridare dignità a chi lavora. In «Spirito sull’acqua», che sin dal titolo richiama la Genesi («In principio Dio creò il cielo e la terra (…)e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque»), l’intreccio di un dramma personale - un assassinio, un dolore che è rimorso e peccato - s’intreccia con il pensiero per la donna amata: «Continuo a pensare a te tesoro/mi risulta difficile dormire». E questo amore diventa la comprensione di quanto possa essere e sia ricca di sentimenti, di passione, la vita dei poveri, dei lavoratori, di tutti coloro che sono occupati ma che sono poveri e debbono pensare ogni giorno a sbarcare il lunario ma non per questo rinunciano a essere una testimonianza della Rivelazione, con i loro sentimenti e le loro integre e pure passioni.

Ecco, la canzone salmodiante - per nella straordinaria modernità della sua musica che fa i conti con il folck e il rock continuamente - trova qui una potenza evocativa straordinaria che, oltre alla poesia, come ogni vera poesia, ha una capacità comprensiva dell’essere molto più profonda di intere biblioteche di sociologia o di economia del lavoro. Fuori da ogni retorica, qui si sente il canto straziante della vita operaia, tra innamoramenti, sbronze, fatiche metallurgiche e precarie. Ma da ogni dove può venire la forza del tuono che scuote la terra e porta la speranza. È la più bella ode alla condizione operaia come vita vissuta, mai scritta da molti anni a questa parte.

 
© RIPRODUZIONE RISERVATA