Standing ovation subito, a luci spente. «I Contain Multitudes, dipingo paesaggi e dipingo nudi, io sono fatto di moltitudini. Sono come Anna Frank, come Indiana Jones. E come quei ragazzacci inglesi, i Rolling Stones. Io punto al limite, dritto verso la fine. Dove tutte le cose perdute tornano». Schivo (anche se ieri qualche “grazie” lo ha concesso), scontroso, geniale e impenetrabile, Bob Dylan compare nella penombra del palco della sala Santa Cecilia, al Parco della Musica, protetto dal suo pianoforte.
LE BALLAD
Quando partono gli applausi, lui è già seduto, sprofondato nel suo carisma. E affida solo alla musica il paesaggio della sua anima. Watching the river flow, You go your way, False Prophet, Masterpiece, My own version of you: cantando, soffiando sui testi, rotolando sulle sillabe, spingendo a voce piena (sembra ringiovanito), sì, che si mette a nudo. Fatto di moltitudini (come si descrive nella canzone autobiografica) e infinite sfumature, ha allineato rock, blues, country, ed è stato magnifico interprete di ballad come Black Rider, di stacchi folk, ritmo, eleganza in Rubicon, I’ll be your baby. Chiedendo al pubblico (come è già avvenuto lunedì e martedì al Teatro degli Arcimboldi di Milano, giovedì al Lucca Summer Festival e venerdì all’Umbria Jazz di Perugia) di ascoltarlo senza distrazioni e senza riproduzioni, su megaschermi o via telefonini, di un’opera d’arte musicale che deve durare una notte. E basta. I cellulari sono stati “sequestrati” e sigillati all’ingresso e restituiti a fine evento, dopo due ore di concerto: la magia di Key West o Melancholy Mood si è stampata solo nei ricordi dei 2.400 spettatori che ieri hanno scaldato la notte romana del suo tour, riempiendo con lampi di passione, la scena (rossa, raffinata) decisamente minimal.
LIKE A ROLLING STONE
Lui, il mito, che quando si ballava ancora l’Hully Gully pubblicava un brano “fuori misura” di sei minuti, Like a Rolling Stone, non vuole essere disturbato da flash, ingigantito dai video, illuminato dai laser.
Di proporre Blowin’ in the wind, non gli va più. E neanche Mr. Tambourine Man. Né The Times They Are a-Changin’. Lui, che con quei brani ha plasmato i cantautori contemporanei, che ha raccontato la vita politica di allora, ha vinto Oscar, Nobel, Grammy e Pulitzer, prende le distanze dai cimeli e propone una nuova autenticità, in uno show raffinato, fresco, affatto nostalgico.
I RITI
I riti, del resto, hanno regole. E quando a dettarle è un maestro del Novecento (Bob Dylan, Minnesota 1941, scrittore, poeta, pittore, scultore, conduttore radiofonico, figura fondante della musica contemporanea), il pubblico ci sta. Nessun borbottio da astinenza da chat (in fila per sigillare gli smartphone anche Abel Ferrara e Nicola Lagioia, oltre ai suoi galleristi londinesi), solo applausi entusiasti a interrompere silenzi leggendari, con commenti finali affidati alle chiacchiere al bar. E chissà che la magia di questa notte d’altri tempi che ha avvolto ieri la sala, non scriva, come più volte è accaduto durante sua la carriera leggendaria, nuove regole sul corredo social e chiassoso degli eventi musicali dei nostri tempi. Ieri il pubblico gli ha dato ragione, salutandolo sotto il palcocon entusiasmo alle stelle.