Rieti, 13 anni fa la notte più triste
della pallacanestro reatina:
lo "Zio Willie" Sojourner moriva
in un incidente sulla Terminillese

Willie Sojourner
di Emanuele Laurenzi
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Sabato 20 Ottobre 2018, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 00:01
RIETI - Non faceva così caldo come oggi, il 20 ottobre di tredici anni fa. A mezzanotte e mezza pioveva. Forte e tanto. Veniva giù una di quelle piogge che vanno avanti per giorni e che ti proiettano nell’inverno. Non c’era facebook, non c’erano i social, non c’era whatsapp. C’era internet e c’erano gli sms e furono quelli gli strumenti che trasformarono una notte di pioggia in una notte d’angoscia. «Brutto incidente sulla Terminillese. Lo Zio Willie è volato in cielo»: così, secco, semplice e atroce. Un messaggio che compare poco dopo mezzanotte e mezza sul “muro” della Curva Terminillo, antenato delle pagine social dove i tifosi dicevano la loro. La firma è di Photone, nick name di un tifoso che passava lì per caso e aveva assistito alla scena che segnò la storia recente della pallacanestro reatina. A poche centinaia di metri da Vazia, nella curva prima del bivio dell’ospedale, un’auto era scivolata via su quell’asfalto bagnato, finendo la sua corsa contro un albero uccidendo l’uomo che era al volante: Willie Sojourner. Finiva così il mito, la leggenda, semplicemente l’uomo dei sogni che aveva trascinato in alto un’intera città, aveva dato orgoglio a tutta una città portandola fin sul tetto d’Europa tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni’80. Era tornato da poco, lo Zio, grazie ad un’intuizione geniale. Erano i giorni dei nuovi sogni, erano i giorni del nuovo Sebastiani Dream, erano i giorni di Gaetano Papalia e dell’idea di riportare in città quel pezzo di storia che, dal 1992, aveva fatto perdere le sue tracce. Sojourner era finito ad Albuquerque, Nuovo Messico, a fare l’operaio. Costruiva cuscinetti a sfera e tirava a campare. Nel senso letterale del termine. Quando Papalia lo chiamò a Rieti, non aveva nemmeno i soldi per il passaporto e, in quell’ultima sera poco prima di morire, a cena con degli amici raccontò di aver passato giorni senza avere neanche gli spicci per acquistare un panino. Incredibile pensare a una cosa del genere. Incredibile perché a Rieti, lo Zio, avrebbe avuto pranzi e cene assicurati per almeno due anni, se solo avesse dovuto rispondere a tutti gli inviti della gente che lo avrebbe voluto a casa. Era arrivato appena un mese prima, la sera del 15 settembre, accolto da una folla immensa in quel palazzo che era stato suo da giocatore e che poi è diventato suo per sempre. C’è chi dice che fossero 5mila, chi dice fossero 6mila, chi dice che c’era gente in fila sulla Salaria solo per vederlo passare. Il ricordo è quello di un abbraccio collettivo di una città che aveva ritrovato il suo simbolo e di un uomo che aveva ritrovato la sua città. I giorni successivi volarono via troppo veloci, troppo in fretta. Lui con la squadra allenata all’epoca da Maurizio Lasi, a far da “papà” ai lunghi e agli americani. Lui nella mitica festa dei 50 anni di Papalia in quel di Tor di Valle, a ridere e a scherzare con tutti. Lui che va a casa di tifosi per far contento un ragazzo meno fortunato di tanti altri, che si commuove nel raccontare gli anni duri della sua vita dopo che i riflettori si erano spenti. Lui che entra per l’ultima volta al bar Crosby dell’amico Giancarlo: lo aveva fatto per una vita, lo aveva fatto anche in quell’ultima sera poco prima della mezzanotte. Una Coca Cola e una manciata di caramelle, poi via verso Vazia. La corsa sulla Terminillese, magari uno sguardo rivolto a quella vecchia casa in via Pier Luigi Mariani dove, dalla finestra, aveva pronunciato il mitologico “Willie no parte”. Magari un occhio rivolto al palazzetto dall’altra parte e poi quella curva, la macchina che perde aderenza, vola via, lo schianto. Il primo ad arrivare sul posto fu Domenico Zampolini, che ebbe l’ingrato compito di fare il riconoscimento del corpo dell’amico di una vita nel cuore di quella notte che stava diventando mattina. E poi la mattina, per l’appunto. Quella mattina triste come poche altre se ne ricordano in città: sono telefonate, sono sms, sono le voci nei bar a dire a Rieti che lo Zio Willie non c’è più. Che Rieti è diventata di colpo più povera. Che Willie, stavolta, è partito davvero e non tornerà più. Tre giorni dopo quella stessa folla che s’era ritrovata un mese prima al palazzetto per abbracciarlo, si ritrovò nello stesso posto per dirgli addio. La bara sotto il canestro, la bara sotto la sua curva e la gente sui gradoni a versare lacrime, stavolta non di gioia sportiva, ma di dolore vero. Lasi e il capitano Picchio Feliciangeli che leggono passi del Vangelo, don Rino con un’omelia da togliere il fiato. E poi il presidente Papalia, che legge quella lettera. Legge la sua lettera e c’è un passaggio che resta scolpito nella testa di tutti: «Ti amo come un fratello, gli dissi qualche giorno fa. Me too, mi rispose con essenziale autenticità stringendomi a se». Era la sintesi dello Zio Willie, di quell’uomo che sapeva mettere allegria a chiunque lo incontrasse, che aveva saputo mettere allegria a tutta una città. Una storia bella, finita in quella notte di pioggia di 13 anni fa esatti, quando non era caldo come oggi. Quando Rieti si risvegliò all’improvviso più sola e più povera.
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