Daniel Pennac: «La crisi nutre la creatività»

Daniel Pennac: «La crisi nutre la creatività»
di Francesca Pierantozzi
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Mercoledì 5 Novembre 2014, 23:06 - Ultimo aggiornamento: 8 Novembre, 18:05
PARIGI - Daniel Pennac sarà domani a Perugia al festival IMMaginario. Il tema di quest’anno è una sfida, un grido di arrembaggio: Viva la cultura! «Ma non vengo a fare lezioni, eh, per carità - precisa subito Pennac, adorabile e sbarazzino come il suo primo antieroe, il signor Malaussène - Vengo a rispondere alle domande dei ragazzi, non mi sento portatore di un Verbo immutabile. Le conferenze, i colloqui, i seminari hanno per me grossi limiti. Lo scambio è molto più creativo, più interessante».



Sta lavorando a un nuovo libro. È felice o tormentato quando scrive?

«Felice a intermittenza. Sono felice quando funziona, quando sono immerso nella profondità del testo. Poi d’un tratto stop: arriva il momento dei dubbi e dei tormenti. E poi si ricomincia».



La creatività: in periodo di crisi, è un lusso per pochi?

«Premesso che è sempre difficile se non impossibile avere uno sguardo storico sul proprio presente, i tempi di crisi, in particolare di crisi durevoli come questa, sono sempre molto creative, perché provocano reazioni, sussulti. Così è stato prima della Grande guerra, negli anni Venti, nel ’68...la creatività artistica reagisce sempre ai marasmi economici. Né i tagli, né la riduzione delle risorse destinate agli artisti, alla musica, al teatro riescono a uccidere la creatività. Anzi, la creatività resiste, reagisce».



Lei ha spesso scritto favole, deve la sua fama mondiale alla saga di Malaussène. L’immaginazione, la fantasia, sono fuga dal mondo, o il miglior modo per capirlo?

«La mia personale pulsione è sempre stata per il romanzo e non per il saggio, amo le metafore non le analisi, con la convinzione, forse inconscia, che in un saggio, quel che è vero, è falso, mentre in un romanzo, anche se è falso, è vero. Chiamo vero, la descrizione sociale del momento, lo sguardo sul presente. In un romanzo, anche se la storia è inventata, se riesce a commuovere, se riesce a far ridere, ci dà forza, galvanizza l'immaginario».



Ridere, divertire, come forma di impegno?

«Si, è stata la mia scelta. Invece di scrivere la saga, Il Paradiso degli orchi, La fata carabina e la Prosivendola, avrei potuto scrivere dei saggi, parlare di urbanismo, architettura, del mondo dell'edizione. E in effetti ho rischiato. La prima versione della fata carabina era lunga duecento pagine. Rileggendole, le trovai davvero brutte. Chiesi un parere a mia moglie che mi confermò: un disastro. Mi disse che era troppo ragionato, che sembrava un saggio sull’urbanismo e non un romanzo. Avevo ceduto a questa tentazione, che è sempre molto forte in me, di descrivere e spiegare il nostro mondo. Contro questa tentazione mi batto in permanenza. Con la Fata Carabina avevo ceduto senza accorgermene, allora mi misi a correggere, a tagliare, a eliminare le digressioni teoriche, le spiegazioni: di duecento pagine ne rimasero...quindici».



C’è un po’ di Calvino in lei, il Calvino che dice che lo zigzag è il modo più veloce di andare da un punto all'altro?

«Leggevo sempre Calvino ai miei studenti. Le Fiabe Italiane sono per me un'opera meravigliosa».



Ha nostalgia della scuola?

«So che quando un insegnante entra in una classe, la prima cosa che sente, che legge su ogni viso è la vitalità. Quando ero professore, intorno a trent'anni, ogni mattina quando entravo in classe, era come se ricaricassi le batterie. Uscivo dalla solitudine della scrittura, del romanzo ed entravo in un mondo pieno di vita. Mi ha fatto tanto bene, anche dal punto di vista letterario. Non per i temi, ma per questa energia creativa. Ne avevo molta di più quando ero insegnante che adesso».



Tablet, Facebook, eBook, eReaders: che ne pensa lo scrittore e l’ex prof?

«La verità? Non ne ho la minima idea. Io personalmente sono passato senza traumi dalla macchina per scrivere alla macchina per scrivere elettronica a quella a testina rotante (che rumore infernale da mitragliatrice!) al computer. Quando scrivevo a macchina, la percentuale er
a otto fogli scritti per uno definitivo. Adesso è finita, è finito anche il muro della pagina bianca, perché sono davanti allo schermo, e l’impressione è di entrare “dentro” la pagina. Certo, con i tablet non c’è più la sensualità della carta, la personalizzazione del libro, questo oggetto che si adora, che si annusa, che ha un peso, che impone pause particolari. È un universo sensoriale importante per la gente della mia generazione, ma che i giovani sostituiranno con un’altra sensualità, che comincerà dal polpastrello che fa sfilare le pagine...».