La sfida dello sviluppo, il professor Bianchi: «Ferrovie, scuole e digitale, ora l’industria torni a Sud»

Il professor Patrizio Bianchi, economista, ex rettore dell'Università di Ferrara
di Diodato Pirone
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Sabato 8 Agosto 2020, 08:05 - Ultimo aggiornamento: 08:06

Il professor Patrizio Bianchi, economista, ex rettore dell'Università di Ferrara ora con cattedra all'Unesco di Parigi, è uno dei pochissimi industrialisti superstiti nell'élite italiana. Il bello è che secondo lui il Covid, che ha risparmiato il Sud, sarà un'opportunità per il rilancio dell'economia del Mezzogiorno se torneranno a nascervi tante nuove fabbriche.
Professor Bianchi, l'industria come leva per lo sviluppo del Sud. Ma non l'abbiamo già visto questo film?
«Tutto lascia credere che il Mezzogiorno stia già tornando ad essere un'area altamente attrattiva».
Per via della riduzione dei contributi voluta dal governo?
«Provvedimenti del genere aiutano, ma in gioco c'è qualcosa di molto più grande».
Cosa?
«In Europa il Mezzogiorno italiano è fra le aree meno attaccate dal Covid. Questa è una pandemia globale che sta incidendo nelle catene globali del valore che tendereanno ad essere - almeno alcune - più corte. In parole semplici, fino a poco tempo fa conveniva investire in Bulgaria o in Vietnam tanto i costi di trasporto erano bassi. Ora il livello di questa convenienza è calato. Non solo per i rischi del trasporto ma perché la convivenza fra strumenti digitali e merci si fa sempre più forte. A chi ha una buona organizzazione digitale non conviene più produrre le merci lontano dai mercati di sbocco. Inoltre l'Occidente sembra aver capito che non può delegare la manifattura all'Asia. L'acciaio, le medicine, le batterie delle auto elettriche vanno assemblate in Europa, non altrove. Il Sud dunque è nuovamente di fronte ad una grande opportunità».
Cosa bisogna fare per approfittarne?
«Iniziamo da una grande verità: l'industria che già ora opera nel Sud va bene. Ce lo dicono tutti gli studi. Però ha un difetto: è isolata. Nel Sud esistono fabbriche numero uno, però poi non ci sono aziende numero due, tre, quattro. Non c'è quella piramide produttiva articolata che invece rende forte il triangolo Milano, Bologna, Treviso. La subfornitura di qualità fa la differenza del made in Italy. Dunque quelle industrie numero uno al Sud non bastano visto che il Pil del Mezzogiorno era già in calo prima del Covid».
E dunque?
«A differenza del passato per lo sviluppo dell'economia meridionale non basta paracadutare qualche fabbrica».
E cosa bisogna fare?
«Agire su tre fronti contemporaneamente. Per questo sarà fondamentale usare bene i fondi europei».
Quali fronti?
«Innanzitutto le infrastrutture. Subito dopo l'unità d'Italia fecero la ferrovia Bologna-Bari. Sarà ora nel 2020 di dotare il Sud di un'Alta Velocità/Capacità all'altezza?».
E poi?
«Scuola. Tanta scuola. E questo significa asili nido per liberare occupazione femminile, scuole professionali fatte bene a partire dai Tecnici Superiori che sono il segreto della buona manifattura tedesca, centri di ricerca universitari. Ma tutto questo sforzo deve essere collegato al sistema produttivo. Bisogna che il Sud sia indirizzato in modo massiccio verso nuovi skill, nuove competenze, approfittando delle nuove tecnologie».
Cosa significa in concreto collegare università e imprese?
«A Bologna abbiamo messo in piedi uno dei più importanti centri di supercalcolo europeo. Questo significa che un terzo dei dati meteo europei passa da lì. Ecco al Sud bisogna pensare a progetti di analoga portata che uniscano le capacità di ricerca universitaria a missioni concrete».
Qual è la terza leva sulla quale agire?
«La tecnologia. In questo contesto l'industria è fondamentale perché se non disponi di fabbriche dotate di buone tecnologie produttive oggi non vai da nessuna parte e proprio una buona capacità di gestire le tecnologie potrebbe aiutare il Sud ad attrarre investimenti sull'onda dell'accorciamento delle catene del valore».
Finalmente l'Europa ci assicura grandi risorse per questi piani. Saremo in grado di spendere bene la montagna di soldi che ci hanno promesso?
«Le incognite sono forti».
Serve allora una nuova Cassa per il Mezzogiorno?
«Non credo, ma non perché quella struttura sia finita male. E' stata una grande idea che per molti anni ha funzionato benissimo. Oggi non sfugge a nessuno la necessità di un piano ambizioso ma poi la sua attuazione andrà fatta camminare su molte gambe e su più soggetti. Comprese strutture del Nord. Perché una cosa deve essere chiara: sciogliere i nodi della questione meridionale conviene a tutto il Paese».
 

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