Rastrellamento del Ghetto di Roma, il sopravvissuto Emanuele Di Porto: «Vidi mamma sparire su un camion»

Aveva 12 anni quando, il 16 ottobre 1943, vide che la madre, Virginia Piazza, veniva portata via dai tedeschi. Lui si salvò, salendo su un tram

Rastrellamento del Ghetto di Roma, il sopravvissuto Emanuele Di Porto: «Vidi mamma sparire su un camion»
di Valeria Arnaldi
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Lunedì 16 Ottobre 2023, 08:13 - Ultimo aggiornamento: 09:18

Emanuele Di Porto aveva 12 anni quando, il 16 ottobre 1943, vide che la madre, Virginia Piazza, veniva portata via dai tedeschi. Lui si salvò, salendo su un tram. Domani, nell'ambito delle commemorazioni per gli 80 anni del rastrellamento del Ghetto di Roma, sarà a Casa delle Letterature per la graphic novel 16 ottobre 1943. Storia di Emanuele che sfuggì al Nazismo (Mondadori), che firma con Ernesto Anderle e Marco Caviglia. E fino al 31 ottobre, dieci bus della linea 23 lo ricorderanno con vetrofanie e Qr code. Lo abbiamo raggiunto per farci raccontare le sue memorie.

16 ottobre 1943, 80 anni fa l'orrore del rallestramento del Ghetto di Roma: 1.022 ebrei furono portati via, tornarono in 16


Cosa ricorda di quei momenti?
«Ero alla finestra.

Vidi mia madre che veniva fatta salire su un camion dai soldati. Volevo salvarla. Corsi verso di lei. Mamma mi faceva cenno di andare via, ma non volevo. Un tedesco mi ha preso e mi ha messo sul camion. A un certo punto, però, lei mi diede una spinta e mi fece scendere».


Cosa fece allora?
«Mi misi a camminare. E, a piazza Monte Savello, salii sul tram. Andai dal bigliettaio, gli dissi che ero ebreo e gli raccontai l'accaduto. Mi aiutò. Anche gli autisti lo fecero. Mi davano da mangiare, mi lasciavano dormire lì la notte, mi facevano stare sul tram durante le loro corse, che iniziavano alle 5 del mattino».


Quanto tempo ha passato così?
«Due notti e due giorni e mezzo. Non ricordo i percorsi, le strade, nulla. Pensavo solo a mamma».


E poi?
«La mattina del terzo giorno, un conoscente mi vide e mi disse che mio padre mi cercava, era convinto che fossi stato preso con mamma. Lui era andato in campagna con gli altri fratelli e sorelle. Erano da un cugino che aveva sposato una donna cattolica. Lo raggiunsi. Rimanemmo fuori un giorno, poi tornammo a casa nostra, nel Ghetto».


E come fece a vivere di nuovo lì?
«I tedeschi sono venuti solo quel giorno, poi ci sono stati i fascisti e non mi hanno mai detto nulla. Ero un ragazzino, non mi rendevo pienamente conto della situazione. Ero il terzogenito, la maggiore era una delle sorelle. Quando papà ebbe un periodo di depressione, andavo io a vendere la merce, pettini e roba di merceria, ai militari. Lo facevo da quando avevo otto anni. Vendevo anche ai tedeschi. A volte pagavano con denaro, a volte con una pagnotta».


Non ha mai avuto paura in quei giorni?
«Mai. Pensavo solo a mia madre. Ero un ragazzino. E anche dopo, quando ho iniziato a raccontare la mia storia, a me sembrava solo di aver compiuto una ragazzata».


Ha più rivisto qualcuno degli uomini che le ha dato aiuto?
«No, né il bigliettaio, né gli autisti. Non è stato per egoismo, ci ho riflettuto poi, è proprio che ho capito molto tempo dopo il bene che mi avevano fatto».


Di sua madre ha avuto notizie?
«Quel giorno, insieme a lei, era stata portata via Settimia Spizzichino. Al suo ritorno, andai con i miei fratelli a chiederle notizie. Ci disse che mamma era stata mandata alla camera a gas appena arrivata al campo di Birkenau».


Oggi che effetto le fa raccontare la sua storia?
«La racconto spesso nelle scuole. La rivivo. Mi sembra che sia accaduta un'ora fa, invece sono passati 80 anni. I ragazzi si commuovono, alcuni mi scrivono. Ancora non mi rendo ben conto del valore del mio ricordo. Non l'ho mai considerato così importante. Non mi piacciono le cose tristi, io, anche ora che ho 92 anni, ho voglia di vivere. Dico sempre che non sono mai stato bambino e non sarò mai vecchio».

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