Enrico Vanzina: «La commedia italiana diventi materia scolastica. I film raccontano il Paese come un libro di Storia»

La proposta dello sceneggiatore e regista: «Mi piacerebbe che si togliesse un’ora di lezione a Manzoni per far vedere dei film ai ragazzi»

Enrico Vanzina: «La commedia italiana diventi materia scolastica. I film raccontano il Paese come un libro di Storia»
di Riccardo De Palo
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Martedì 15 Agosto 2023, 01:06 - Ultimo aggiornamento: 09:21

«La commedia all’italiana andrebbe insegnata nelle scuole: basterebbe mettere insieme quaranta-cinquanta film di quelli migliori, per raccontare il nostro Paese, come un vero libro di Storia». Enrico Vanzina ci crede: «Se potessi parlare seriamente con qualche ministro - dice il cineasta e scrittore al telefono dalla Versilia - proporrei di togliere un’ora a Manzoni per proiettare un film. Chi ha raccontato meglio il nostro Paese è proprio la commedia all’italiana».

E invece, perché questo genere è sempre stato bistrattato dalla critica?

«Nella mia famiglia, la commedia si fa dalla fine degli anni Trenta e quindi posso dirlo: noi viviamo ancora con un pregiudizio gravissimo, che fa parte di una cultura che contrappone forma e contenuto.

La commedia è sempre stata trattata come un contenuto superficiale, di divertimento, di intrattenimento, e invece non è così».

E questo perché?

«La critica militante pensa che le forme artistiche debbano servire a cambiare il mondo e quindi, tutto quello che non ha “impegno”, come si dice, non va bene. Eppure Chaplin di impegno ce ne metteva moltissimo nei suoi film, anche quando faceva cose molto leggere. La commedia è stata trattata nel nostro paese come un genere minore».

E poi che è successo?

«Negli anni sessanta un gruppo di francesi, quelli dei Cahiers du cinéma, per intenderci, con Bernard Tavernier in testa, cominciano a scrivere che la commedia italiana è una cosa straordinaria e che Risi vale altrettanto, se non di più, di Antonioni, Fellini, Visconti. All’improvviso, la commedia acquista una sua dignità. Il primo approccio serio ai nostri film lo hanno avuto i francesi».

Possibile?

«Ho potuto toccare con mano questa cosa in famiglia, con mio padre che fece con Mario Monicelli Guardie e Ladri, che inizia il genere della commedia all’italiana. Da noi il film viene trattato come un filmetto qualunque, ma poi va a Cannes e vince la migliore sceneggiatura, con Monicelli, Steno, Brancati, Flaiano, Pinelli. La commedia all’italiana è molto diversa dalle altre commedie...»

Cosa la contraddistingue?

«C’è una commedia viennese con Ernst Lubitsch e Billy Wilder che arrivano negli Stati Uniti e creano quella che viene chiamata la sophisticated comedy. C’è una commedia francese, fatta di meccanismi impagabili, straordinari, ma in cui la psicologia dei personaggi è relativa. C’è poi la commedia inglese, molto “black”. E, infine, la commedia all’italiana, che nasce grazie al neorealismo».

Ma come definire questo genere?

«Tratta problemi reali della vita in maniera leggera. Uno degli esempi più eclatanti è Divorzio all’italiana, che nel mondo viene considerato un capolavoro assoluto. Pietro Germi non ha avuto il plauso della critica che avrebbe meritato, nel corso della sua carriera. Se pensa a Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) I soliti ignoti, C’eravamo tanto amati, Il sorpasso, Una vita difficile, sono tutti dei grandissimi film. Ma chi li ha girati, sapeva in partenza che il loro lavoro sarebbe stato trattato come un filmino qualunque. Poi, però, la forza di questi titoli travolge le generazioni successive, e ci si accorge anni dopo della loro grandezza».

Perché questi film non si fanno più?

«Oggi i ragazzi sono più portati a esplorare i disagi urbani, le periferie, temi molto drammatici, da festival. Eppure la commedia ha sempre vissuto con generazioni che si succedono. Quando ho cominciato io, oltre a mio fratello e me c’erano tanti che allora erano ragazzi, Verdone, Benigni, Muti, Troisi, Nichetti, e anche Moretti da un altro punto di vista. Ognuno raccontava una generazione attraverso la commedia».

Due mesi fa è stato premiato con un David alla carriera, ma ha detto che avrebbe dovuto essere premiato ai tempi di Sapore di mare, che compie 40 anni. Perché?

«Lo ha dimostrato il tempo: ogni generazione ha amato quel film allo stesso modo. Forse possedeva qualcosa di molto forte che allora non fu notato, perché c’era un pregiudizio per la commedia. Eppure, è un piccolo romanzo di formazione. Da giovani, d’estate, si maturavano esperienze molto importanti: l’amicizia, il tradimento, il desiderio di essere migliori».

Fu boicottato?

«Assolutamente no e, anzi, Virna Lisi vinse David e Nastro d’Argento. Ci fu una difficoltà in partenza con la distribuzione, perché erano quasi tutti esordienti».

Qual è il problema del cinema, oggi?

«La crisi delle sale, ovviamente. Io ho due o tre film pronti ma non riesco a girarli perché non voglio darli a Netflix o Amazon. Questo rilancio estivo ha favorito le grosse produzioni americane, la quota di mercato del cinema italiano è precipitata al sette per cento. È anche colpa nostra. Bisognerebbe raccontare il nostro Paese in chiave di commedia, per riconquistare la sala».

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