CAPOLAVORI
Del palazzo romano di Stroganoff, già del pittore Salvator Rosa, conosciamo qualcosa: alcuni acquerelli ne ritraggono i saloni, lussuosi e zeppi di opere ancora identificabili. Ma un’importante Madonna di Duccio da Buoninsegna, passata per l’antiquario romano Giuseppe Sangiorgi e il banchiere belga Adolphe Stoclet, è al Metropolitan di New York. Come una Crocifissione, venduta per Giotto ma rivelatasi del Beato Angelico. O una Madonna di Pinturicchio, con un raro Bambino che legge, oggi a Raleigh, in Carolina. La dispersione è stata completa, e terribile, a parte poche cose regalate dagli eredi, come egli voleva, a San Pietroburgo, all’Ermitage. Per esempio, una Madonna di Simone Martini, che è parte dell’Annunciazione la cui altra tavola è a Washington, alla National Gallery. E spariti sono i preziosissimi avori bizantini; formavano «la più numerosa collezione dopo il Vaticano e il Louvre». Almeno in parte, Stroganoff aveva catalogato i suoi beni: grazie a Antonio Muñoz, ispettore alle Gallerie, e al celebre archeologo Ludwig Pollack.
Aveva acquistato in mezza Europa, specie tra il 1880 e il ’90: «Poiché non esisteva allora la concorrenza americana, gli furono riservate le cose più belle», scrive Muñoz. In più, le opere di famiglia, dopo la dipartita dalla madre Russia. La raccolta spaziava dal 2000 a.C. alla prima metà dell’Ottocento: cuoi di Cordova; marmi greci e romani; ori e argenti; molte stampe di Rembrandt; 250 dipinti; 30 mila volumi. Non molti potevano vederla. Per Pollack, la dimora era «un vero gioiello». Arazzi in quantità. Poco è rimasto: a palazzo Barberini, il Ritratto di Erasmo da Rotterdam, di Quentin Metsys; in Vaticano due lacerti di affreschi, San Pietro e San Paolo, alla prima basilica di San Pietro. Al Poldi Pezzoli di Milano, una Croce di Bernardo Daddi; a La Spezia, al museo Lia altre opere; qualcosa alla pinacoteca di Vittorio Cini, a Venezia.
DIASPORA
Alla morte del conte, nel 1910, una figlia e i nipoti, da San Pietroburgo, vengono a Roma. La collezione era intonsa. La Rivoluzione d’ottobre è impietosa: muoiono tutti; salva solo la vedova di un nipote, Elena Scherbatoff: nel 1920, è a Roma con le due figlie. E vende. Anche opere vincolate. Erano rimasti poverissimi, e la lasciavano fare; oppure, è più probabile, gli uffici esportazione non capivano quanto passava sotto i loro occhi. L’antiquario Sangiorgi ebbe un grande ruolo nella diaspora; scrive: «Non hanno altri mezzi di sussistenza che gli oggetti...». A protestare, è invece Roberto Longhi: su due riviste, con uno pseudonimo (per non crearsi troppi nemici?), che è quasi un suo anagramma, Bartolo Ghiner: «Quando si finirà di mercanteggiare alla chetichella da chi ignora il valore di quanto gli antiquari esperti rivendono a suon di migliaia di dollari sui mercati d’America?», come ricorda Simona Moretti. Due aste per la biblioteca; una, di 840 oggetti, dall’antiquario Jandolo a Piazza di Spagna. Chissà dove sono finiti Guardi, Canaletto e tantissimo d’altro; due Sebastiano Ricci, alla National a Washington. L’arazzo più prezioso, pur vincolato, lo compra il mercante più famoso tra tutti, Joseph Duveen, e varca anch’esso l’oceano. Del conte, resta solamente il ricordo; ma con tantissimi rimpianti.
Fabio Isman
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