Paolo Virzì: «Abbiamo perso l’arte di litigare per passione»

Paolo Virzì: «Abbiamo perso l’arte di litigare per passione»
di Malcom Pagani
9 Minuti di Lettura
Domenica 2 Aprile 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 5 Aprile, 16:59
Gruppo di famiglia in un interno: «Amore, vai a dormire?», «Vado a leggere». È quasi notte, Paolo Virzì e Micaela Ramazzotti non sono più vestiti da gran sera e lo scambio tra moglie e marito dura lo spazio di un mattino. Tra i David di Donatello conquistati per La pazza gioia di nuovo nelle sale dopo aver sbancato persino in Israele e il doppiaggio del film americano in cui il ragazzo di Livorno che girava pubblicità per le tv locali dirige Helen Mirren e Donald Sutherland, normalità e fatica trovano il giusto compromesso: «Sono stanco, felice e ansioso di avere una pausa. Siamo creature fragili e le carezze sono il nostro nutrimento, ma al di là dei premi e della gara che come tutte le competizioni ha momenti di bellezza, crudeltà e malinconia, mi è rimasta addosso soprattutto l’ultima sensazione. Vedere andare via un maestro come Bellocchio senza neanche una pacca sulla spalla mi è dispiaciuto».

Ai David lei ha evocato Arbasino.
«Lui sosteneva che la carriera dello scrittore italiano avesse sempre tre fasi: giovane promessa, solito stronzo e venerato maestro. Io sono oggettivamente il solito stronzo. Giovane promessa non posso più essere e venerato maestro non voglio diventare. È una grazia divina che tocca a pochi privilegiati che invecchiano bene o hanno smesso».

Quindi nessun orgoglio per aver trasformato la follia in poesia?
«Non c’è nulla di peggio dei cineasti che si danno delle arie e offrono ricette per migliorare il mondo. Siamo solo cantastorie a cui piace andare a ficcare il naso nei guai della vita. Però è vero: Chi fa ‘sto mestiere ha sempre l’illusione un po’ stupida che il cinema possa riparare i torti. Zavattini diceva che il poetico viene da se, ma l’utile bisogna volerlo. Ho voluto fare un film, anche se al principio un soggetto del genere poteva generare riluttanza, ma non l’ho voluto fare con spirito di denuncia. Per quello c’è il giornalismo di inchiesta».

Bruni Tedeschi era emozionata davvero sul palco o recitava?
«La seconda. Da grande commediante aveva diritto a recitare anche il suo speech».

È vero che si è augurato vincessero le ragazze di Indivisibili?
«Forse. Magari per simpatia nei confronti di un film più piccolo. De Angelis, il regista, al Centro Sperimentale l’avevo selezionato io. Proprio come Giovannesi».

Le sue prime esperienze?
«Facevo l’assistente a mio cugino, fotografo di matrimoni. Giravo spot ingenui e inguardabili e insieme a Francesco Bruni davo vita a spettacoli pretenziosi. Per sembrare vecchio, nei teatrini livornesi, mi gettavo il borotalco sui capelli. Allora, giuro, li avevo tutti al loro posto».

«Livorno-disse-non perdona le velleità artistiche».
«Il tratto antropologico della mia città è l’irriverenza. Chiunque si cimenti in un’impresa deve attendersi scherno, canzonatura e dileggio. Meritati, nel mio caso. Il mio primo film, Paso Doble, era tremendo. Uscì un solo giorno in una sala strapiena di amici e parenti, ai Quattro Mori. Io scappai per la vergogna non appena si spensero le luci. Le reazioni me le feci raccontare».

Trama?
«Una cosa che non stava in piedi. Quattro amici si incontrano a molti anni di distanza e fanno un bilancio della loro vita. In onore di quello “grande”, firmato da Kasdan,lo ribattezzammo ironicamente Il piccolo freddo».

Perché non stava in piedi?
«Perché anche se a quell’unica proiezione non c’ero, credo suscitasse risate involontarie. In Paso Doble, il bilancio esistenziale era interpretato da attori ventenni».

Suo padre era carabiniere.
«Maresciallo siciliano, pudico e taciturno. Tra noi c’era la dialettica che ci può essere tra un uomo in divisa e il figliolo che milita nella federazione anarchica».

Lei lasciò Livorno presto.
«A 20 anni avevo già la valigia in mano. La prima volta vidi Roma nel 1984, per i funerali di Berlinguer».

Ricordi dei suoi vent’anni?
«La pensione di Via Marsala divisa con le meretrici nigeriane che fumavano Marijuana mentre io buttato su una branda strimpellavo No Woman, no cry, l’appartamentino del nuovo Salario diviso con Francesca Neri, la tremenda 127 giallo ocra con la quale attraversavo la città, l’incendio della casa in Via Miani che carbonizzò ogni cosa e Sandro Veronesi che venne a soccorrermi e a offrirmi riparo in piena notte con una coperta in mano. Tante cose mi ricordo. Mi ricordo la follia e la meraviglia di quegli anni senza una lira in tasca. Non provare nostalgia è impossibile, a volte vorrei ricominciare da capo. Da zero».

E riuscito a non montarsi la testa?
E chi l’ha detto che non me la sono montata? Attraverso Arturo Bandini, figlio di immigrati italiani che scappa dal Colorado per andare a imporsi come scrittore a Los Angeles, John Fante descrive come nessun altro la psicologia dell’artista da giovane. Passi dal percepirti il più bravo del mondo a sentirti l’ultimo della terra, dal delirio di onnipotenza allo scoramento e all’autoflagellazione».

Lei ha vinto decine di premi.
«Medicine per curare un’insicurezza che penso mi accompagnerà per sempre e che con lo scorrere degli anni invece di diminuire, mi pare aumenti».

Un maestro importante?
«Furio Scarpelli, lo sceneggiatore de La Grande Guerra, de I soliti ignoti e di C’eravamo tanto amati. Le lezioni fondamentali della vita me le ha date quasi tutte lui. Gli ho voluto bene, mi ha spiegato chi ero e soprattutto a non aver paura di essere com’ero».

E chi era, Paolo Virzì?
«Uno che scriveva e disegnava compulsivamente tante bischerate e che aveva la fortuna di discendere da una plebe selvaggia, proletaria, caustica e gagliarda. Furio mi insegnò a indossare la mia maschera e io fui finalmente libero di poter prendere in giro chi mi intimidiva».

Che rapporto avevate?
«Dolcissimo e bellicosissimo, A Furio la dialettica piaceva. Litigavamo in maniera apparentemente sanguinosa in via della Croce, ai tavoli di Otello. I clienti pensavano fossimo sul punto di ucciderci, ma in realtà nell’aria c’erano soltanto passione e adrenalina. Sa cos’è?»

Cos’è?
«Eravamo tutti meno permalosi, noi registi. Ci sfottevamo tra noi guardandoci negli occhi mentre oggi - pur continuando - lo facciamo alle spalle dell’altro. Mi manca il litigio che si fonde con l’abbraccio. Sarebbe bello potersi ‘sfanculare per passione e dopo volersi bene come se facesse parte di un gioco naturale e amoroso».

Lei è permaloso?
«Non credo. Non penso. Da ragazzo forse ero insopportabile, antipatico e come le ho detto, litigioso. Mi piaceva la mischia, ma è da molto che non mi ci butto».

Come mai?
«Forse sono i tempi. Si urla troppo. C’è violenza, rabbia, qualunquismo. È un vento che mi fa paura. A 16 anni, quando guardavo ai modelli delle comunità agricole e sognavo la rivoluzione, non avevo ancora visto l’odio politico e le pozze di sangue per terra. Forse sono diventato moderato: altro che rivoluzione, qui al massimo si possono limitare i danni».

Avverte un’aria strana?
«Sento intolleranza e fanatismo e vedo che all’avversario denigrato viene negata la dignità di essere umano. Automaticamente l’avversario diventa nemico da abbattere e io mi ricordo subito del Raphael e di Craxi. Il giorno delle monetine passai per caso davanti all’albergo e vidi la scena con i miei occhi. C’era l’odore del sangue e della caccia all’uomo. Niente mi legava a Craxi e al sostegno per una stagione politica che pensavo dovesse terminare al più presto, ma il giorno del Raphael non fu un giorno qualsiasi. Da allora, delegittimazione e desiderio di processare o mandare in galera chiunque la fanno da padroni».

A lei Grillo non piace.
«Ci sono tante cose che sarei pronto a sottoscrivere domani e ne esistono tante altre opache. Il M5S è una non democrazia, è un’azienda con due proprietari. Un comico dal profilo etico quantomeno discutibile, vista la sua pesante storia giudiziaria della quale stranamente non si parla mai e un tizio che ha ereditato dal padre un’agenzia che lavora nel web. Forse sul tema sono sensibile perché ci sono passato. Sono stato l’unico regista inserito in quello sputificio del suo sito, con tanto di foto e commenti che mi auguravano la morte. Al posto del giornalista del giorno, Grillo mise me, anche se a quanto pare non si sa chi lo gestisca, ‘sto sito. Qualche tempo vado in un mercatino della Garbatella e vengo avvicinato da alcuni militanti. Hanno iniziato a inveirmi contro e a dirmi con molta rabbia e senza alcuna ironia cose così irragionevoli e violente da farmi venire paura. Un po’ codardo, è vero, sono, ma lì qualcosa da temere c’era davvero».

Cosa le dicevano?
«Che i film me li finanziano il Pd e Renzi. Certo, uno potrebbe ridere di fronte a queste fesserie, ma a me spaventa chi elimina la complessità delle cose, chi agita polveroni per aizzare l’ira e la frustrazione delle persone alimentando la disperazione. Non mi fido dei processi sui giornali, che a loro volta hanno molte responsabilità. Mafia Capitale, ad esempio. Ho letto, ma mi è parsa una storia più vicina a I soliti ignoti e alla saga del Monnezza che a Il Padrino».

Nogarin si è detto felice per lei.
«Ah sì? Strano, so che si era vantato di non aver mai visto un mio film. Dove nel dopoguerra sedevano eccellenze come Furio Diaz o Nicola Badaloni, oggi c’è un tipo di Castiglioncello che si definisce ingegnere aerospaziale, ma mi risulta riparasse computer e avesse talento soprattutto nell’organizzare “aperitivi rinforzati”. La verità è che avevamo la classe dirigente più vecchia d’Europa e un cambio, anche brutale, era necessario. Ma invece di iniziare dalla testa, da Scuola e Università, per provare a formare una nuova classe dirigente all’altezza di tempi difficili, si è partiti dalla coda: inevitabilmente, sono arrivati i barbari. I senza arte né parte, gli opportunisti, gli analfabeti che come unica qualità e virtù offrono la propria disponibilità a tagliarsi lo stipendio».

È vero che un film sull’Italia dei 5 Stelle lo girerebbe?
«Grillo, un comico che passa da ‘arrendetevi tutti’ a ‘stiamo solo scherzando’, un ciclotimico, ciclotimico come quasi tutti gli artisti, mi interessa molto come soggetto romanzesco. Questi Meet up in cui con 15 voti ci si candida a Sindaco o a Primo Ministro possono far molto ridere. Ho una cartellina di appunti fittissimi, ma forse rimarranno lì. Per fare un film con una matta, un cialtrone o un disgraziato devo provare empatia. Non si fa un film contro qualcuno, non si deve fare mai. E comunque il grillismo in Italia ha già vinto, sono già al potere e dettano la loro agenda demagogica a tutti i media che obbediscono e a tutti i partiti, che inseguono».

Il suo prossimo film, The Leisure Seeker, è quasi finito.
«Racconta la fuga in camper di una coppia di anziani che è stata insieme per tutta la vita. Lui è fisicamente forte, ma svanito. Lei è acciaccatissima, ma brillante. Alla vigilia di un ricovero forzato, nascondendolo ai figli, partono insieme per un ultimo viaggio nei luoghi amati».

Difficile guidare due attori così?
«All’inizio ero intimidito e un po’ frenato. A Sutherland che con Mash e Animal House mi aveva segnato l’adolescenza o alla sublime Helen Mirren non potevo certo dare le battute. Mi sono limitato a catturare il massimo della verità possibile».

Mirren è arrabbiata per la Brexit.
«“Bloody insulars” diceva dei suoi compatrioti, giurando che non avrebbe più rimesso piede in Inghilterra. È una donna di parola. Credo che finora abbia mantenuto la promessa».

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