Luca Barbarossa: «Canto la mia città in romanesco. E piace all’Italia». Il 29 concerto all'Auditorium

Luca Barbarossa: «Canto la mia città in romanesco. E piace all’Italia». Il 29 concerto all'Auditorium
di Alvaro Moretti
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Mercoledì 27 Giugno 2018, 00:19 - Ultimo aggiornamento: 15 Luglio, 22:09

Lo confesso, la voglia all’inizio dell’intervista era quella di chiedergli «passame er sale». Romanamente, avverbio che – con calembour - definisce Luca Barbarossa: una bella mente romana, una bella voce romana, un romano che l’Italia ha deciso di amare in quanto tale.
 



Anche per un progetto musicale che è progetto di vita per lui: Roma è de tutti. Il tour che chiude il giorno di San Pietro e Paolo, patroni, all’Auditorium è stata una gimkana tra la quotidianità radiofonica di Radio2 Social Club e i balzi da Reggio Calabria al profondo Nord. Un concerto che il 29 sarà una splendida expo delle amicizie top di Luca, «ma non posso ancora svelare niente».



Un concept di canzone popolare.
«La sfida è quella di vedere cosa possiamo dare oggi da Roma al Paese: una chiamata alla responsabilità creativa, al senso civile del fare meglio. La nostra città vive un momento di grande difficoltà e non può più bastare pensare al Colosseo che hanno fatto altri romani. Serve il nostro scatto di reni».

Un percorso partito da Sanremo.
«Un festival estremamente positivo, per noi romani in particolare. A partire dalla scelta e ora una conferma di un grande musicista alla guida, come Baglioni. È arrivata agli italiani una romanità positiva, piena di talento: con Favino e Leo, Fabrizio Moro, Ultimo, Mirkoeilcane… Se ne saranno accorti i politici?».

In principio, però, fu Roma puttana.
«Io ho rapporto conflittuale con Roma. Amore e odio: ogni giorno vorrei scappare, ma anche tornare a Roma. Via da Roma è il testo di Gigi Magni: l’ha scritta 35 anni fa, non è figlia di questi giorni di cronaca. Vede, ci sono atteggiamenti romani insopportabili, che vedo ogni giorno: una certa inciviltà che risiede a Roma. Forse non è romana, ma residente sì. Abbiamo comportamenti non in linea di una popolazione di una capitale. Roma è de tutti è orgoglio, ma mette a nudo il delirio di Roma. Noi possiamo aiutarla Roma: basterebbe non creare ostacoli alla vita degli altri in doppia fila».

Il gran finale alla Cavea.
«Ci siamo lasciati Roma per ultima: la nostra ciliegina. Gli amici che verranno saranno grandi sorprese. In un polo culturale straordinario: Roma non sarebbe più immaginabile senza l’Auditorium, come polmone culturale. Nato per la musica classica, ma salvato da noi del pop».

Il bravo conduttore radiofonico è diventato anche spalla per comici emergenti.
«Mi diverte moltissimo tutta quella libertà, a Radio2. In tv è difficile pensarla: la rivoluzione lì la fece Arbore, e veniva dalla radio. È bello incontrare le storie artistiche delle persone: al Social Club siamo leggeri, non superficiali».

Poi c’è Nicolas, il quarto figlio… Il figlio parassita, turbo adolescente: veloce nel chiedere di tutto e in ogni momento.
«Non è un figlio vero, ma c’è un confronto con le nuove generazioni interessante e complicato. Da padre lo sforzo che faccio è quello di far godere ai miei figli l’attesa di cose che non devono più conquistare. Per i nostri padri era più facile educarci alla fame di conquista: nun c’avevamo niente».

Il suo “X Factor” è stato piazza Navona
«Sarei andato per strada, se avessi avuto la paghetta? Forse no. Lì a piazza Navona mi costruivo la vita: ci guadagnavo i soldi per viaggiare. Suonare e viaggiare».

E oggi sono i social la nuova piazza Navona?
«Beh, no. La sottocultura del virale ti fa chiedere l’autografo a un serial killer. È più facile fare un disco, oggi, quello sì. A Piazza Navona hanno suonato in tanti per anni senza essere notati. E oggi, magari, devi chiedere il permesso ai Tredicine. Io e Mario Amici non chiedevamo i permessi a nessuno, avevamo una folla. I mangiafuoco e giocolieri lo chiedevano a noi il permesso».

Il ricordo più bello di quel tempo da cantante west coast romano?
«Noi che cantiamo a Madrid e Barcellona dopo la caduta del franchismo: erano talmente affamati di libertà che erano disposti a farsi arrestare per non farci sequestrare le chitarre».

E la politica, s’interessa di voi?
«De Gregori dice che la politica si fa viva in campagna elettorale per attirare e strumentalizzarci, mentre degli artisti ci sarebbe bisogno dopo. Sono gli artisti che hanno fatto bella questa città: il Campidoglio l’ha disegnato Michelangelo. Ci trovi Bernini, Canova, Renzo Piano. Gli artisti hanno un’apertura mentale che è utile».

Una telefonata e Paolo Genovese, Marco Giallini e Anna Foglietta in un giorno girano il videoclip de “La Dieta”, la sua ricetta gastronomico-sentimentale. Genovese presenta il suo libro e lei suona. Sembra un movimento di romani antichi e moderni uniti per la qualità.
«C’è affinità e partecipazione al lavoro degli altri, c’è comunità. Paolo mi fa vedere le scene in anteprima. Io vado a Sanremo e chiedo ad Anna di fare il duetto. Sappiamo ancora innamorarci di un progetto. Il Social Club è stato questo: ho avuto Motta, Mannarino, Brunori, Calcutta e De Gregori o Giorgia. Non ci troviamo in un locale, ma se chiami l’adunata rispondono tutti».

Luca, “Roma è de tutti”, certo. Ma Roma centro è dei Barbarossa.
«Nato intorno a via del Corso, con una storia di romanità bellissima da raccontare: piccoli artigiani e grandi sfide.
Nonno era detto Forbicetta, il barbiere del Centro e il suo vicino Otello, il famoso ristoratore del Ghetto, il locale degli artisti. Nonno romanista, Otello laziale: ad ogni derby si aspettava la scommessa. Vince la Roma e Forbicetta, Otello va a bottega a spazzare i capelli. Vince la Lazio, Forbicetta a servire ai tavoli di Otello. Una Roma bella da ricordare, il 29 proviamo ad avere tutto lo stesso spirito all’Auditorium».

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