Francesca Murri, direttore creativo di Fiorucci: «Niente angeli, ma tanto colore per abiti positivi»

La stilista ha rivoluzionato il brand con un nuovo progetto sartoriale: «In questo momento storico di rilancio, evito operazioni nostalgia. Il mio scopo? Divertire»

Francesca Murri, direttore creativo di Fiorucci: «Niente angeli, ma tanto colore per abiti positivi»
di Anna Franco
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Venerdì 26 Aprile 2024, 06:00

Parla velocemente, con la voglia incontenibile di raccontare e raccontarsi, Francesca Murri, nata a Roma, e residente a Milano, 48 anni fa, da luglio 2023 è la direttrice creativa del nuovo Fiorucci. Si muove con naturalezza tra le domande, un po' come se parlasse della sua prima esperienza lavorativa, malgrado il suo curriculum raccolga parecchi nomi blasonati come Armani, Givenchy, Gucci, Ferragamo ed Etro da designer di accessori. In poco tempo è cambiato tutto: ora si occupa dell'intero look, «perché avevo bisogno di spaziare».

Il suo scopo finale?

«Divertire e divertirsi».

Che idea si è fatta della storia di Fiorucci?

«Entrando in questa azienda mi sono resa conto di una cosa. Elio Fiorucci è sempre stato visto come un outsider, non come un vero e proprio designer. Credo che già negli anni Settanta sia stato il primo influencer della moda e, poi, ha inventato molte cose che adesso imitano un po' tutti».

Per esempio?

«L'idea di creare una sorta di community, che è alla base del rilancio di parecchi brand. E, poi, l'uso delle grafiche, ma anche l'invenzione del lifestyle, di tutto un mondo che gira intorno a un marchio».

A proposito di grafiche, lei al momento non ha usato quella più celebre: gli angeli.

«Sono un simbolo potente e commerciale. In questo momento storico, dove dovevo pensare al rilancio dopo che la precedente proprietà e il relativo designer avevano abusato di quell'immagine, ho pensato di lasciarli momentaneamente da parte. Torneranno nel ruolo che meritano, evitando operazioni nostalgia senza un vero linguaggio».

E su cosa punta il suo Fiorucci?

«Non è semplice, perché tutti hanno un ricordo di questo brand. Ho cercato punti in comune con la mia storia, vedendo cosa lasciare e cosa rivoluzionare. Ho voluto sottolineare l'accoglienza di questo marchio, la sua democraticità, in parte snob, ma aperta agli altri. E, poi, credo che si abbia voglia di pop, colore e positività e di tanto buonumore».

Cosa pensa, quindi, dell'inclusività che tanti sbandierano?

«Temo sia un po' una moda, che, come tale, potrebbe, purtroppo, anche esaurirsi».

Tempi difficili per i creativi?

«Abbastanza.

Si ha quasi paura di proporre idee, perché potrebbero essere interpretate nel modo sbagliato o offendere qualcuno».

In più spesso durano poche collezioni...

«Già, ci sarebbe bisogno di tempo per raccontare la propria storia. Invece, c'è una corsa ossessiva al risultato e non si può crescere in eterno, soprattutto in un mercato dove i brand sono anche troppi. Quando il matrimonio tra creatività e business va bene si riescono a fare belle cose».

Sembra la sua storia. Il ceo di Fiorucci, Alessandro Pisani, è anche suo marito. Facile o difficile?

«Ci siamo sempre confrontati, a casa, sui nostri lavori trovando affinità. Non avrei mai accettato questa proposta se non avessi saputo che siamo allineati e che mi conosce meglio di chiunque altro».

Il negozio Fiorucci in galleria Passarella, a Milano, rimane nell'immaginario. Volete creare un altro punto così?

«Stiamo chiudendo il negozio di Londra, che non era giusto per il marchio. E abbiamo in programma di aprirne uno nel capoluogo lombardo. Intanto la nostra sede sarà anche un hub creativo, dove far nascere collaborazioni con artisti più o meno conosciuti, raccontandoci. Stiamo tornando a desiderare esperienze fisiche. Alle nuove generazioni, spesso prese dal virtuale, vogliamo dare un po' di reale».

La collezione autunno/inverno è stata presentata con una serie di foto scattate a un'immaginaria fermata di autobus. Perché?

«Mi piaceva ricreare un fotoromanzo, genere in voga nell'epoca d'oro di Fiorucci. C'è una donna un po' strega che regala caramelle che fanno innamorare, mentre ai bus stop, normalmente, ci si ignora. Una storia di amore e ironia».

Lei è nata e ha studiato a Roma. Ma per avere successo nella moda bisogna andarsene?

«Ho lasciato la mia città a malincuore. Ma forse c'è bisogno di andare via per vedere cosa succede fuori. A Milano mi trovo molto bene, ma a Roma succede di tutto e c'è di tutto, è un teatro a cielo aperto, dove personaggi di diversa estrazione si mostrano senza filtri. C'è molto di questo e delle relazioni umane che si vivono qui nel mio stile. Spero di tornare un giorno». 

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