Il papà di Pantani: «Marco, noi non ci siamo
mai arresi» di Gabriele De Bari

Marco Pantani
di Gabriele De Bari
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Venerdì 14 Febbraio 2014, 00:43 - Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 17:06

Era un’aquila venuta dal mare, volava regale sulle montagne domandone le vette pi alte e impervie. Come Coppi aveva dato un senso di eterno alle sue imprese, protagonista di interpretazioni magnifiche di smisurata misura. Le impennate romanzesche su Galibier, Alpe d'Huez, Mortirolo, Oropa, Ventoux tenevano incollate milioni di persone davanti alla tivù. Lo sportivo italiano più amato, dopo il Campionissimo, preferiva pedalare nella solitudine, sfidando le difficoltà della natura, e nella solitudine e nel silenzio è morto 10 anni fa. Della stanza al quinto piano, al Residence delle Rose, in via Regina Margherita, a Rimini, oggi perfettamente ristrutturato, resta il ricordo della fine del campione nel giorno di San Valentino. Ucciso dalla cocaina, a 34 anni. Così ha certificato la Procura dopo indagini difficili, le stesse che i genitori di Marco Pantani contestano e vorrebbero riaprire. La morte ha consegnato il Pirata alla leggenda ma non ha sciolto i dubbi.

IL MUSEO

Pantani era vittima della Sindrome di Icaro, la sua storia è costellata di salite prodigiose e di cadute rovinose. Alcune veramente drammatiche come quella che, nell’autunno del ’95, nel pieno di una discesa piemontese, rischiò di farlo rimanere paralizzato. Ma si è sempre rialzato, forzando con la rabbia il destino, in virtù di una volontà immensa e di un orgoglio smisurato. Non accettava la sconfitta e voleva sempre sentirsi il migliore. A Cesenatico la tomba di famiglia è meta di sportivi e gente comune, perché il Pirata era il campione della gente normale. Nel giorno di chiusura, Paolo Pantani, il papà di Marco, ci apre il museo come aprisse una parte del suo cuore. «Questa è la bici con la quale, a dodici anni, ha vinto la prima corsa a Serravalle». E nei suoi occhi c’è un lampo d’orgoglio. «Da bambino amava il calcio, giocava ala e non passava mai la palla. Poi un giorno, sfidato da coetanei che facevano ciclismo, li staccò tutti su un cavalcavia usando la bici da donna di mia moglie Tonina. Il ds Amaducci lo convinse a tesserarsi con la squadra. Io e il nonno Sotero gli regalammo la prima bici da corsa, costava 260 mila lire: era il 1984. In salita non aveva rivali, da juniores si allenava con i professionisti e li staccava».

UNA STORIA DA RIAPRIRE

La fine di Pantani comincia all’apice della carriera quando, all’alba del 5 giugno 1999, a Madonna di Campiglio, registra un ematocrito di 52, su 50 di tolleranza. «Ci sono cose che non tornano, oltre alla provetta usata che non venne scelta da lui come previsto. Lo hanno voluto colpire: forse il mondo delle scommesse, di sicuro Marco dava fastidio. E’ stato considerato un criminale, non ha avuto una seconda possibilità. Su di lui si sono accanite sette Procure, abbiamo cambiato oltre dieci avvocati e speso una fortuna. Non mollava mai, però si sentiva perseguitato e pensava di smettere». La depressione prima, la cocaina dopo. «E’ stato sfruttato da falsi amici, che gli procuravano droga e ragazze. Un giorno gli dissi: ”smetti, la cocaina ti distrugge”. Mi rispose che avrebbe potuto smettere in ogni momento, non era vero. Quattro anni e mezzo di calvario, ci hanno lasciato da soli a combattere. Non ci arrendiamo, speriamo di riaprire il caso della morte. In camera c’era del cibo cinese, che non mangiava, nessuno ha accertato se stava da solo o in compagnia, né la provenienza della droga. Io e mia moglie vogliamo restituirgli dignità». Sulle montagne del Giro centinaia i graffiti che ricordano il Pirata, esaltandone il Mito, perché Pantani continua a volare ed è sempre vivo nel cuore dei tifosi..

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