«Feltrinelli nega la festa al Gattopardo», parla l'erede di Tomasi di Lampedusa

«Feltrinelli nega la festa al Gattopardo», parla l'erede di Tomasi di Lampedusa
di Mario Ajello
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Giovedì 18 Ottobre 2018, 08:19 - Ultimo aggiornamento: 19 Ottobre, 23:08

Dal nostro inviato
PALERMO

«C'è sempre acqua dal cielo e mai dal rubinetto». Lo diceva il principe di Lampedusa di questa casa, che ora è un gioiello sui bastioni di Carlo V in difesa di Palermo dallo sbarco dei turchi ma quando la abitava l'autore del Gattopardo, aristocratico ma non ricco, era quasi un tugurio. «Guardi, questa è l'edizione del Gattopardo in giapponese, e si capiscono soltanto i numeri. Questa è quella in lettone. Quest'altra è quella in ebraico. Lo sa che il Gattopardo in Israele vende moltissimo?». Gioacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo del principe di Lampedusa, vive in questo splendido posto affacciato sul mare. Lì c'è il salone delle feste, nell'angolo c'è il manoscritto del Gattopardo con tanto di dubbi e correzioni del principe...
 

 


Non sarebbe questo il luogo perfetto dove festeggiare i 60 anni di uno dei più importanti romanzi italiani di tutti i tempi?
«Andrebbe bene anche il Quirinale. Ma Feltrinelli non vuole celebrazioni. Non le ha fatte e non si faranno. È un peccato. Non è proprio il clima giusto, purtroppo».

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Ma è il romanzo che, insieme al Dottor Zivago, ha fatto la fortuna della Feltrinelli. È un libro troppo di destra, come sosteneva Moravia, per essere celebrato nel mainstream progressista che ancora domina in molte case editrici?
«Elio Vittorini, che lo rifiutò due volte, prima per la Mondadori e poi per Einaudi, lo considerò un libro vecchiotto'. Palmiro Togliatti lo stroncò ma poi, dopo l'elogio di Louis Aragon, secondo cui il Gattopardo dimostrava che il capitalismo sarebbe andato a finire male, ne parlò benissimo».
 
 


Ma queste sono vecchie storie...
«No. Sono portato a pensare che Feltrinelli non celebri i 60 di questo libro, celebrato in tutto il mondo, per una sorta di resistenza pratica. Perché loro credono che può ancora esistere una letteratura pedagogica di sinistra, e che funzioni soltanto quella. Il Gattopardo, che alla Feltrinelli ha dato successo e denaro, non rientra in questo schema. E del resto, è un libro terribile. È l'opera di uno scettico, non di un progressista mainstream».

Se uscisse oggi, non venderebbe?
«Poco. Direbbero: ma guarda questo aristocratico stronzo!».

Era contro il popolo il principe di Lampedusa?
«Era contro le plebi. Avrebbe voluto mettere nelle mani della povera gente, per emanciparla dall'ignoranza e dalla sudditanza, l'Encyclopédie di Diderot e D'Alembert. C'è poi un altro aspetto per cui la cultura d'oggi ritiene scomodo Tomasi di Lampedusa. Perché, da visionario, seppe vedere qualsiasi degenerazione razionale del presente: dalla demagogia al pressappochismo, a una certa ansia di stupire con nulla inflazionando le parole e svalutandole».

Feltrinelli insomma perde una grande occasione?
«Sì. Io ho detto loro: facciamo venire in Italia tutti i grandi letterati che adorano il Gattopardo, da Vargas Llosa a Xavier Marías, per non dire di Yehoshua, a spiegare perché questo romanzo è così importante nel mondo. Mi hanno risposto dalla Feltrinelli: ma con la nostra fondazione qualcosa la faremo.... Poi non si è fatto e non si farà niente».

Torno a chiederle: perché?
«Il libro è uscito il 28 ottobre del 58. E secondo me c'è ancora, in un certo mondo culturale, quell'impostazione che allora fu data da due personaggi del calibro di Contini ed Eco. Che dicevano: il Gattopardo è una volgarizzazione di Proust. E in Carlo Feltrinelli, figlio di Giangiacomo e Inge, credo pesi ancora il pregiudizio di Vittorini sulla presunta non modernità di questo libro. La questione del pregiudizio sul Gattopardo non è mai stata superata. Anche se un grande intellettuale, Edward Said, il celebre autore di Orientalismo, ha fatto un saggio in cui sostiene che gli italiani sono stati il popolo dello spirito laico. Prima Lucrezio con il De rerum natura, poi Vico, poi Gramsci, poi Lampedusa. L'illuminismo di Lampedusa, aggiungo io, andrebbe celebrato in Italia come lo celebrano all'estero».

Dunque, non è più aria?
«Siamo ormai un Paese che ha fatto la civiltà europea ma della cultura non s'interessa più. Vendiamo vino e olio, e non facciamo auditorium».

Qual è il nocciolo del Gattopardo?
«Più lo studio e più mi accorgo che è un romanzo freudiano. Si fonda sul sogno di desiderio. Tomasi tra i suoi libri di culto aveva il Trattato di psicoanalisi di Cesare Musatti. Non lo definirei semplicemente un romanzo storico. Ma un libro che insegna come raccontare la storia dell'uomo, che è fatta di traumi, di fatti psicologici, di gioie, di contraddizioni».

Perché comunque lo pubblicò Feltrinelli, e non Mondadori e Einaudi che erano meno di sinistra rispetto alla casa editrice fondata dal miliardario tupamaro?
«Guardi, è stato Giorgio Bassani, che non era di sinistra, a farlo pubblicare. Era consulente della Feltrinelli, il suo parere contava moltissimo».

Perché Tomasi scelse la figura del Gattopardo?
«Si tratta di un errore linguistico. In siciliano leopardo si dice attopardo. Lui voleva dire leopardo come fanno i contadini. Ma le racconto questo. Mia madre, che era una grande signora, ebbe in regalo da un maharaja un ghepardo. Smilzo, brevilineo, velocissimo. Lo tenevano in casa a Roma, in via Cornelio Celso, vicino a villa Torlonia. Si chiamava Cita, quel ghepardo. Cita, così lo avevamo chiamato, lo vedevi sdraiato su un tappeto, e dopo mezzo secondo con un salto di tre metri stava sulla cima di una libreria o a cavallo di uno specchio. Oppure usciva e mangiava le galline nei campi che allora c'erano lì intorno. A casa nostra era una processione di gente che arrivava con le galline morte tra le mani e volevano soldi. Dovemmo rinchiudere Cita allo zoo».

Insomma lei conobbe una forma di gattopardo, o almeno di gattaccio, prima ancora di conoscere il principe di Lampedusa?
«Sì, lo avrei conosciuto più tardi e ne restai affascinato».

In che cosa credeva Lampedusa?
«Nello stato di diritto. Se a Palazzo Chigi, al posto di Di Maio e di Salvini, ci fossero Montesquieu e Einaudi, lui applaudirebbe dall'aldilà. Ma non perché antico, o vecchiotto, ma perché moderno».
 

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