Giovanna Calvenzi: «Una bella foto sopravviverà a Instagram»

Giovanna Calvenzi: «Una bella foto sopravviverà a Instagram»
di Nicolas Lozito
7 Minuti di Lettura
Domenica 25 Agosto 2019, 11:05

«Racconto agli amici spesso questo episodio: tanti anni fa eravamo in Marocco, Gabriele, io e un gruppo di amici. Gabriele vede una bici abbandonata nel deserto e la fotografa. Poi ci chiede l’avete vista anche voi: nessun altro l’aveva vista». 
Giovanna Calvenzi, milanese classe 1949, è una delle più grandi photo editor italiane. Esordisce come assistente di Federico Patellani, Cesare Colombo e Toni Nicolini, i padri fondatori del fotogiornalismo italiano; poi insegna Storia della fotografia e infine inizia a lavorare ad Amica nel 1985, per poi curare la fotografia di decine di altri periodici italiani. Sposata con Gabriele Basilico, uno tra i fotografi di paesaggio urbano più conosciuti al mondo, è con lui – scomparso nel 2012 – che ha iniziato la sua avventura con la fotografia. Calvenzi è ospite della 10ª edizione Festival dei sensi, dal 23 al 25 agosto nella Valle D’Itria in Puglia, dove ha curato con Kitti Bolognesi la mostra “Italia fiabesca” di Federico Patellani. 

Come è finito, quindi l’episodio in Marocco?
«Torniamo a casa, lui sviluppa la foto, e vuole metterla nella selezione finale. Io gli dico: “Guarda non c’entra nulla, e gliela scarto”. Poi lui la rimette, e risponde: “Ma quella scena l’ho vista solo io, è troppo bella”. Questa scena si è ripetuta in tantissime occasione, sempre con la foto della bici nel deserto».

Cosa ci insegna questo aneddoto?
«Che fotografo e photo editor sono intrinsecamente legati ma anche molto diversi. Io, da photo editor, rimanevo aderente a ciò che vedevo e quello che lo scatto mi suscitava, lui portava con sé le sue sensazioni durante lo scatto».

E di voi due cosa racconta?
«Che abbiamo passato la vita intera a discutere di fotografia: è stato l’elemento caratteristico della nostra relazione. Lui si fidava tantissimo del giudizio, ma poi faceva di testa sua».
 
Il vostro primo viaggio però era un altro. 
«Sì, negli anni ’70. Altri tempi. Volevamo andare a Samarcanda, per fare foto. Siamo rimasti fermi a Tehran. In tutto il viaggio non ho mai fotografato, così ho capito che il fotografo era solo lui, i miei scatti erano farlocchi, ma sapevo fare altro». 

Cosa rende una persona un fotografo o una fotografa?
«Un fotografo è capace di raccontare quello che sente e trasmettere l’emozione di quel racconto. A prescindere dal riconoscimento sociale, professionale, economico».


Uno scatto di Federico Patellani: Minatori di Carbonia (© Studio Federico Patellani - Regione Lombardia  Museo di Fotografia Contemporanea, Milano-Cinisello Balsamo)

Che storie devono raccontare, oggi, i fotografi per essere notati? Reportage internazionali facevate voi? O storie più intime, “dal giardino di casa”?
«Questo è un falsissimo problema e un falsissimo dibattito. Come quello della tecnica. Luigi Ghirri è diventato un grande fotografando le cose vicino a lui, altri fotografi hanno girato il mondo. Non importano i chilometri che fai, è importante quanti chilometri fa il tuo cervello per avere quell’idea». 

Da sempre lavora con tanti fotoreporter: cosa rende invece un fotografo un fotogiornalista?
«Una volta era il respiro internazionale, la conoscenza e la voglia di conoscere, lo studio. Oggi è soprattutto la capacità di organizzarsi. Non ci sono più tanti giornali che assegnano reportage importanti, così ci si deve organizzare da soli, in anticipo».

L’editoria non investe più nelle immagini?
«Negli anni 80 ad Amica avevo un budget di 5 milioni di lire per la copertina. Per lavorare con Helmutt Newton lo pagavamo 2 milioni al giorno, quando lo stipendio medio in Italia era la stessa cifra, ma al mese. Ora per una rivista si hanno si e no 400€. Un calo drastico, incredibile, frutto di una miopia che guarda solo al taglio dei costi e che non cura più il prodotto editoriale». 

Oltre al budget, al nostro panorama editoriale manca qualcosa dei “vecchi tempi”?
«Ora sfoglio i giornali con l’iPad. Ci sono ancora prodotti di qualità, penso a Internazionale, per esempio, che però è una rivista di servizio. Mi manca un giornale di qualità, con la carta pregiata, con dei testi curati e delle bellissime fotografie. Come poteva essere un tempo Il Mondo di Pannunzio».

Cosa significa fare la photo editor? In tutti questi anni ha trovato delle regole d’oro? Dei trucchi del mestiere?
«Non ci sono metodi precisi e replicabili. Un buon photo editor come prima cosa capisce per chi sta lavorando. Non sceglie la miglior foto per sé, ma per gli altri. Se è un giornale, sceglierà foto per quel tipo di giornale, per quel tipo di pubblico. Se è per una mostra o per un libro, capirà innanzitutto quali sono gli intenti del libro: diletto, saggio, autobiografia. La migliore foto non è per forza quella da mettere in copertina, per esempio, perché in copertina ci saranno anche la testata, i titoli, il prezzo: ci vuole un'immagine capace di sopportare queste intrusioni».

La furia delle immagini, come la chiama l’artista e critico Joan Fontcuberta, sta rovinando il mondo? Siamo invasi dalle immagini quindi non le capiamo più?
«Abbiamo di fronte un cambiamento epocale, certo. Sui social ci sono più foto di quante ne potremmo mai vedere. Ma fasciarci la testa è prematuro. La professionalità rimane. Pensiamoci: ci sono 45 trasmissioni tv contemporanee sul cibo, ma nessuno di noi vedendole si sente uno chef stellato, né sminuisce il loro lavoro».

Come facciamo a destreggiarci in questo magma fotografico?
«Possiamo chiudere gli occhi. Girarci dall’altra parte; è così facile. L’altro giorno un amico mi ha detto che su Facebook vede solo immagini brutte. Gli ho detto: perché segui le persone sbagliate, sul mio Facebook è pieno di scatti bellissimi». 
La fotografia, però, ha perso totalmente la sua funzione di testimone della realtà.
«Un altro falso mito. E ve lo spiego: Hippolyte Bayard era un fotografo che contestava a Daguerre l’invenzione della fotografia. Ci furono dei processi per cui Bayard provò molta umiliazione. Così, nel 1840 fece circolare uno scatto che lo mostrava morto annegato. Tutti ci cascarono: una delle prime fotografie della storia è un falso. Il garante della veridicità non risiede nella tecnologia o nella sovrabbondanza di immagini, ma è sempre stato il fotografo».


Uno scatto di Federico Patellani (© Studio Federico Patellani - Regione Lombardia  Museo di Fotografia Contemporanea, Milano-Cinisello Balsamo)

Come inizia un suo corso di Storia della fotografia?
Raccontando l’incredibile magia del periodo in cui è nata la fotografia. La convergenza perfetta di innovazioni tecniche, di scoperte scientifiche, di fisica e chimica che si combinano con la fantasia di chi ha creato la fotografia. Immaginate il mondo prima e il mondo dopo un'invenzione che ha cambiato la storia dell’uomo».

Come lo spieghiamo ai giovani, che vedono molte più immagini di noi ma non hanno ancora la capacità di discerne i significati?
«Mostrando loro libri, mostre, musei. Portandoli in giro, assumendoci la responsabilità di educarli con belle immagini».

E come le finisce?
«Dicendo: non chiedetemi cosa fare ora, chiedetevi cosa siete disposti a fare».

Fotografia al femminile: lei ha cercato di pubblicare più donne per dare loro più risalto?
«Avrei commesso un terribile sbaglio. E parlo da donna che ha fatto parte di collettivi femministi e ancora oggi si batte. Ma le professioniste donne non sono panda da salvare: se la loro foto è migliore la prendo. Ed è ovvio che ci sia più spazio in certi campi di fotografia rispetto ad altri: molti uomini nel fotogiornalismo, mentre tante donne hanno lavorato su temi come l’autoritratto, per fare due esempi».

Siamo al 50ennale dello sbarco sulla Luna: una delle immagini più indelebili del 20esimo secolo. Del 21esimo, cosa ricorderemo? L’uomo che cade dalle Torri gemelle l’11 settembre? Il primo scatto di un buco nero? 
«Mi chiedete di fare una selezione difficile. Provo a rispondere diversamente: mi è venuta in mente un’immagine delle Twin Towers, ma molto diversa, presente nel cortometraggio di Sean Pean “Luce e fiori” nel film “11 settembre 2001”: un uomo, vedovo, che continua a parlare con la moglie e le mostra come, da quando sono crollate le Torri, che proiettavano la loro ombra nell’appartamento, i fiori sul terrazzo sono rinati, perché prendono molta più luce. Struggente».

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La foto in apertura è un'opera del 2016 di Erik Kessels, artista olandese, che ha stampato migliaia di fotografie, tutte quelle caricate sul social network fotografico Flickr in un solo giorno.

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