Rieti, l'agente immobiliare: «Claudio Campiti, il consorzio era la sua ossessione»

La casa a Valleverde
di Sabrina Vecchi
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Martedì 13 Dicembre 2022, 00:10 - Ultimo aggiornamento: 09:16

RIETI - «Quando mia moglie mi ha raccontato l’accaduto non l’ho fatta finire: ho capito subito che l’assassino era lui». Luigi, titolare dell’Immobiliare Turano, gestisce da anni le vendite delle case con «vista fiordo norvegese», come amano dire i suoi clienti. Qui, frazione Valleverde incastonata sopra il lago del Turano, l’astio di Claudio Campiti - che domenica ha ucciso tre persone e altre ne ha ferite durante una riunione di condominio - come «unica fissazione» per quel consorzio di poco più di duecento case era noto a molti. Un astio che aveva addirittura messo nero su bianco, in un blog che letto adesso fa tremare i polsi. Ma nulla che lasciasse presagire la strage compiuta a colpi di pistola nel quartiere romano di Colle Salario dal 57enne residente dal 2016 ad Ascrea. Quel rudere, ormai noto alle cronache, dove Campiti viveva senza corrente elettrica, né impianto fognario, né riscaldamento, lo aveva acquistato all’asta nel 2008, con la ferma intenzione di rivenderlo. E si rivolse all’Immobiliare Turano. 
«Era una persona di cultura, ci si parlava anche bene - spiega l’immobiliarista - ma già in quell’occasione manifestò il suo livore verso il consorzio, riteneva non fosse giusto pagare le spese. Non capiva che era necessario terminare le opere di urbanizzazione, quelle che oggi sono in corso». Campiti comprò quello stabile a poche migliaia di euro, intenzionato a rivenderlo a cifre ben più alte. «Rifiutai di occuparmi della trattativa - spiega Luigi - feci una perizia e compresi che c’erano tantissime spese, tra cui quelle del condono, a carico dell’acquirente. Inoltre, il prezzo a cui il Campiti intendeva cedere era assolutamente fuori mercato». Di fatto, la casa non si vende, ed è per questo motivo che dopo la perdita del lavoro da assicuratore e la separazione dalla moglie e la scomparsa del figlio, Claudio Campiti decide di stabilirsi nella parte inferiore dello stabile in cemento grezzo. Sul quale aveva esposto in bella vista lo striscione con la scritta “Consorzio raus”, per manifestare in maniera plateale il suo punto di vista. Altri malumori nel consorzio non sembrano pervenuti, a parte le spese alte. «Per questo qualcuno ha venduto, qualcuno storceva il naso, ma nulla più - dice Luigi - qui sono tutti clienti, ricordo bene quando sulla fine degli anni Settanta ho visto nascere Valleverde. Conosco gli abitanti uno per uno, professionisti che hanno acquistato un’abitazione per staccare la spina o persone che hanno ricevuto la casa in eredità familiare: tutta bella gente». Intanto, quell’astio già manifestato molti anni prima, in Claudio Campiti non solo non accennava a diminuire, ma aumentava. 
«Lo incontravo spesso - dice Luigi - non so di cosa vivesse e per certo non praticava nessuna attività lavorativa, forse lo aiutava il Comune o magari aveva percepito qualche risarcimento dopo la tragica morte del figlio. Ma non discutevamo di questioni personali, il suo solo pensiero era quell’odiatissimo consorzio, non parlava d’altro». Ogni occasione era buona, soprattutto con un interlocutore che per questioni lavorative conosceva ciascuna delle persone su cui Campiti riversava tutto il suo odio. E su cui domenica scorsa ha riversato un intero caricatore di proiettili. «Mi fermava e parlava subito di mafia, di appalti truccati, di quelli che chiamava ladroni. Ho provato tante volte a placarlo, a fargli capire lo scopo del consorzio, ma non dava retta a nessuno». Nonostante le condizioni poco agiate in cui viveva, Campiti si presentava con un abbigliamento e un aspetto dignitosi. La mente però, covava altri disordini. Che quella per il consorzio fosse diventata una fissazione maniacale, Luigi lo recepisce di nuovo circa quindici giorni fa, l’ultima volta che lo vede: «Stavo trattando un immobile situato di fronte a casa sua, ci fermammo a parlare, ovviamente sempre dello stesso argomento. L’ho trovato ingrassato, un po’ confuso. Ripeteva sempre le stesse cose». 
Di quell’ultimo incontro, a Luigi rimane impressa una frase: «Tanto vado via», pronunciata da Claudio Campiti in un modo strano, incomprensibile. «Non pagava le spese, per cui era costretto a lasciare l’immobile in cui abitava, ne era consapevole. Mi ripeté quella frase quasi rassegnato, non capivo cosa intendesse. Mi ha lasciato col dubbio, un dubbio che si è chiarito domenica. E che mi ha lasciato sotto choc».

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