Npc Rieti, sofferenza e trionfo:
con Tortona il riassunto
delle tante emozioni del basket

La coreografia dei tifosi della Npc Rieti contro Tortona
di Emanuele Laurenzi
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Lunedì 18 Aprile 2016, 14:32
RIETI - Folle, insensata, infinita, forse anche brutta tecnicamente, ma tremendamente bella e indimenticabile. Di quelle che ricordi nei secoli. Di quelle che racconterai ai tuoi nipoti. Di quelle che ti lasciano stordito, senza voce, con le orecchie che fischiano e le corde vocali infiammate. Di quelle che ti buttano addosso tanta di quella adrenalina che alle tre di notte stai ancora sveglio, con la maglietta amarantoceleste ancora addosso e l’idea di metterti a correre per le strade di Rieti.

La serie A sembrava un sogno e la salvezza sembrava un miracolo. Dalle 8 di ieri sera i reatini hanno capito che i sogni si possono avverare e i miracoli a volte accadono. Ed il mondo e la vita, tutto all’improvviso, sembrano pure più belli di quello che in realtà non sono. E la mattina dopo quel miracolo avverato stai lì, con tutti i muscoli che ti martellano di dolore ricordandoti quelle due ore di tensione infinita, gli occhi ancora lucidi e la voce che è solo un lontano ricordo, ma esce fuori quel tanto che basta per continuare a raccontare e raccontare e raccontare di quella partita folle, insensata, infinita e bellissima. L’epica della pallacanestro reatina s’arricchisce di un altro capitolo. Da ieri sera la Npc Rieti è storia, con quell’81-78 impresso sul tabellone e sulle facce di quelli di Tortona che ancora stanno cercando di capire com’è stato possibile perdere contro ogni logica quando tutto, ma proprio tutto, sembrava dire che l’avevano portata a casa. Croce e delizia di uno sport che a queste latitudini mobilita masse, mette insieme vecchi e giovani e fa scendere lacrime pure a incalliti uomini di mondo che non piangevano dalla terza elementare.

Concentrato di emozione puro ed unico, Npc Rieti-Tortona ha avuto dentro tutto quello che si può sognare e temere da uno sport, dallo sport che ami di più, da una partita della tua squadra del cuore: l’attesa che sale, il palazzo che si riempie, i cori che salgono al cielo. E poi la palla a due che si alza, la tua squadra che sprofonda, poi risorge, vola, cade, sembra al tappeto. L’angoscia che ti toglie fiato e lucidità. Poi la scintilla, il recupero, quel pazzo pensiero che ti fa credere che il miracolo sia ancora possibile, quella giocata che lo rende davvero possibile, quell’altra giocata a 38 centesimi di secondo te lo può togliere e poi, alla fine di tutto, vedi il Capitano, il tuo Capitano, crollare in lacrime sulla panchina e vorresti raggiungerlo, abbracciarlo, baciarlo, ma non ce la fai manco quella partita l’avessi giocata tu in campo. Troppo tutto insieme. E allora riavvolgi il nastro e cerchi di rimettere insieme quella serata. Perché quell’aria di impresa e nottata epica c’era tutta fin dal primo pomeriggio. Come ai vecchi tempi, che fossero 40 o 5 anni fa, quando alla partita si andava urlando “tutti al palazzo” e due ore prima era già fila per entrare. Con la curva già piena e tu che arrivi dal parcheggio senti già i cori alti al cielo. Poi dentro, in quel catino, investito dal calore e da una temperatura che sembra essere la cosa più vicina all’Inferno.

Così anche ieri, fino alla presentazione delle squadre, quando la Terminillo ha fatto la Terminillo, stendendo quello striscione bello e pazzesco, da groppo in gola e amarcord, ricordando la storia della pallacanestro in questa città, da Willie a Brunamonti a Riva, totem del grande basket nazionale. Atmosfera stellare, che in tre quarti dei palazzetti d’Italia possono solo sognare. E poi palla a due per quella gara che neanche nei film americani sarebbe venuta fuori così bene. Rieti che precipita nel baratro con uno 0-9 in 3 minuti e mezzo che stenderebbe anche un gigante. Il pubblico ci crede, la curva canta, Rieti risorge e vola, vola, vola e non si ferma più. Accorcia fino alla fine del primo quarto, poi arriva il sorpasso e quando mancano 6 minuti all’intervallo dalle mani di Picchio parte una parabola perfetta, una tripla che sfonda la retina e viene giù il palazzo su quel 28-19. Neanche il tempo di spegnere le voci ed i cori che arriva l’estasi pura con Della Rosa, con un’altra tripla, col +10 e a quel punto, sontuoso e mostruoso, parte il mitologico “Daje mo, Daje mo”, quel coro che mette le ali ai reatini e seppellisce gli avversari. Quel coro che, 99 su 100, quando si alza suona come una sentenza per gli avversari. Ma siccome a Rieti basket fa sempre, solo e comunque rima con sofferenza, ecco che si spengono le luci. Non in senso figurato, ma reale. La partita si ferma e alla ripresa Tortona corre, picchia, segna e risale fino al 34-30 di metà gara. Tutto da rifare, tutto da rimettere in gioco, tutto da combattere. E alla ripresa è battaglia vera, dura, cruda. Di quelle da sogno e da leggenda. Rieti corre, Tortona recupera. Tortona corre, Rieti recupera. Spuntano gli uomini della provvidenza, Veccia martella triple, ce la mette anche Benedusi. Tortona riallunga e allora riecco Picchio, Cpiatano mio Capitano, che rimette la tripla e salta ancora il tetto del palazzo. Punto a punto fino all’ultimo quarto. Quando Tortona se ne va. A metà è avanti di nove, con Rieti in ginocchio, il pubblico sfinito, la logica e il tabellone che ti dicono che solo un pazzo ci può credere ancora, solo un miracolo ti può salvare, solo in un sogno ci può stare la rimonta. E i pensieri si accavallano. E tutto sembra finito. E poi Dalton Pepper. E poi 4 triple. E poi lo strappo ricucito. E poi il sorpasso 76-75 a 53” dalla fine, con un’altra tripla che si stacca dalle mani dell’americano. La palla che vola, il respiro che si blocca, il cuore che si ferma e quell’esplosione pazzesca, folle, quell’urlo che lo sentono fino a Passo Corese. L’avvio dell’ultimo minuto più bello e più folle di sempre. Brooks che pareggia in tripla a 16 secondi dalla fine. Cavina, si proprio lui, proprio quello di Castelmaggiore, che vuole riscrivere un’altra pagina di psicodramma di basket reatino, ordina il fallo su quello che lui definirà “un mio coetaneo e un mio amico”. Ordina fallo su quello che è il più vecchio e lui pensa sia il più stanco. Ordina fallo su Picchio Feliciangeli. Che prende la palla. Si mette lì a una manciata di secondi dalla fine e mentre il palazzo si fa di ghiaccio, fa un 2/2 che resterà nella storia più di mille triple, schiacciate, stoppate o giocate. Gli ultimi due tiri di una carriera, gli ultimi due tiri che valgono la salvezza della squadra di quella che è diventata la sua città vanno dentro. E sarebbe già festa e delirio, non ci fosse l’ultima follia finale. Perché nel gioco dei falli sistematici, a 38 centesimi dalla fine (trentottocentesimi, non trentotto ore), ovvero meno di un respiro e un battito di ciglia, Parente va in lunetta, sbaglia il primo e mette il secondo e un tortonese trova il modo di tirare da una parte all’altra del campo e prendere il ferro, mentre tutto il mondo credeva fosse finita e invece gli arbitri avevano alzato il segno “tre”, che vuol dire tripla valida. Alla faccia di chi credeva che già il tiro di Fultz ad un secondo e ottanta fosse fantascienza. Ma poi, alla fine, chissenefrega di quello che poteva essere e ci si gode quel che è. Ed ecco l’invasione campo, il Capitano che piange, la gente che s’abbraccia, il popolo amarantoceleste che festeggia e il presidente che entra urlando in sala stampa “Dillo che siamo salvi, dillo che siamo salvi” mentre Luciano Nunzi elogia la squadra per il miracolo e nell’aria ci sono ancora le parole e gli occhi lucidi di Picchio che ha annunciato l’addio al basket. Troppo per non piangere tutti insieme. Troppo per non raccontarlo. Troppo per non chiedersi se davvero è successo tutto. In un pomeriggio di paura e delirio al PalaSojourner. In una gara folle, insensata, infinita, forse anche brutta tecnicamente, ma tremendamente bella e indimenticabile.
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