La prevalenza della volgarità: quando la parolaccia diventa fenomeno di massa

La prevalenza della volgarità: quando la parolaccia diventa fenomeno di massa
di Massimo Arcangeli
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Sabato 20 Agosto 2016, 00:00

Qualcuno ha avuto la pazienza di contarli: 367 in Alpha Dog (2006), 422 in Casinò (1995), 428 in Nil by Mouth (Niente per bocca, 1997), 435 in Summer of Sam (1999), 569 in The Wolf of Wall Street (2013), per limitarci ai primi in classifica. È il numero dei fuck (e derivati) presenti nei film dell’elenco, due dei quali diretti da Martin Scorsese. S’impongono sui 300 di un’altra pellicola di Scorsese, Goodfellas (Quei bravi ragazzi, 1990), che aveva superato il record di parolacce di Scarface (1983) di Brian De Palma. Se ai fuck sommiamo shit(s), bitch (e bitching) e i nomi volgari o popolareschi delle intimità femminili e maschili, raggiungiamo, solo per la biografia del fraudolento broker americano interpretato da DiCaprio, la ragguardevole cifra di 687 scurrilità tutte in una volta. Il top del top? Neanche per sogno. Swearnet: The Movie (2014), una commedia canadese non approdata nelle sale italiane, inanella 935 fuck (e dintorni). Scompare, al confronto, il lessico pecoreccio dei cinepanettoni, comunque a loro volta spie della mutazione subita dal filone comico nostrano nell’ultimo venticinquennio. Il grande Totò, nei suoi 97 film, ha ceduto alla volgarità verbale un’unica volta, in un vivace scambio di battute con un maggiore tedesco, indossando i panni del bisbetico colonnello Di Maggio (I due colonnelli, 1962). Altri tempi.
Buon gusto a perdere, è il caso di dire, se pensiamo all’ultimo arrivato: Sausage Party, uno scurrile splatter food d’animazione, sbarcato nelle sale americane il 12 agosto scorso, che si prende gioco della produzione Disney, Pixar e DreamWorks. Il protagonista è un salsicciotto di nome Frank, innamorato di una donna-panino (Brenda) e attorniato da tanti amici di scaffali: la casa in cui abita è un supermercato, e insieme alla sua bella ne combina di cotte (ops!) e di crude. La prima parola menzionata nel film (shit) è già una promessa, ma gli 89 minuti di durata della pellicola ammanniscono ben altre portate, prestazioni sessuali comprese. Restiamo in attesa di sapere se resisterà il primato di South Park (1999), prodotto d’animazione, tratto dall’omonima serie, con il più gran numero di parolacce nella storia del genere: 399 per chi le ha contate. E aspettiamoci una risposta per le rime, se ricomparirà in un’altra avventura, dell’orsetto-bullo di peluche, di nome Ted, che allieta l’esistenza di Mark Wahlberg in due film (2012 e 2015) di Seth MacFarlaine, l’inventore dei Griffin: non bastasse il linguaggio osceno, il cafonissimo animale rutta, si ubriaca, fuma erba e frequenta prostitute.
 
IL SAGGIO
Vito Tartamella, autore di un saggio più volte ristampato (Parolacce. Perché le diciamo, che cosa significano, quali effetti hanno, 2006), si è divertito a contare i titoli dei libri pubblicati in Italia fra il 2000 e il 2009 contenenti parolacce (http://www.parolacce.org). Sarebbero appena 231 su 560.000 all’incirca, ma rispetto agli anni Sessanta, secondo i calcoli di Tartamella, i volumi dai titoli volgari sono aumentati di 13 volte negli anni Novanta e di 29 volte nei primi dieci del Terzo Millenno. E fa un certo effetto, ultimamente, vedere libri del genere in vetrina o in bella mostra nelle librerie.
Fra i motivi della volgarità imperante la reazione al politicamente corretto e al suo perbenismo radical-chic, spesso scambiata per un sospirato ritorno alla libertà d’eloquio, ma soprattutto gli effetti del dilagare di una sopraffazione verbale autorizzata dalla communis opinio, sempre più disposta a riconoscere a parole e locuzioni triviali la funzione di innocui intercalari o di moltiplicatori di espressività. Consoliamoci, intanto, con gli esiti di una recente ricerca pubblicata sulla rivista Language Sciences: chi fa uso di un linguaggio privo di tabù linguistici attingerebbe a un più ampio serbatoio di varietà verbali, disporrebbe di un bagaglio espressivo superiore a quello di chi si tiene invece alla larga dalle oscenità. Nella ricerca, coordinata da due psicologi americani (Kristin Jay e Timothy Jay), si è chiesto a 49 giovani, di età fra i 18 e i 22 anni, di elencare, in un minuto per ciascuna delle due serie, le brutte parole e i nomi degli animali che gli fossero venuti in mente. Ebbene, questo l’esito del sondaggio, quelli che avevano menzionato il maggior numero di male parole erano gli stessi cui era subito dopo riuscito di snocciolare il numero più consistente di nomi di animali.
Se dobbiamo dar torto a Thomas Bernhard, alla chiusa di una sua riflessione (“La volgarità è da ogni parte intorno a noi, e ogni giorno, inevitabilmente, soffochiamo nell’imbecillità”), se a far sprofondare nella stupidità non è la profanity ma la politeness, dobbiamo allora considerarci un popolo planetario di geni. In realtà un po’ incompresi, agli occhi dei più schifiltosi e inguaribili snob, ma è questione di tempo. 

 
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