Gli ottant’anni di Mogol: «Liberiamo le canzoni di Battisti»

Gli ottant’anni di Mogol: «Liberiamo le canzoni di Battisti»
di Marco Molendini
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Giovedì 18 Agosto 2016, 00:02 - Ultimo aggiornamento: 26 Agosto, 17:11
«È stato un compleanno di lavoro» scherza Giulio Rapetti, da sessantasei anni Mogol per tutti. Ne ha fatti 80 ieri, nella sua casa di Toscolano, a due passi da Amelia, dove da un quarto di secolo c’è la sua factory: «Ho passato la giornata a rispondere al telefono e ai messaggi, a centinaia» racconta fra l’esausto e il compiaciuto.

C’è stato tempo per spegnere le candeline?
«Si, ma a forza di parlare mi è mancato il fiato. E dire che mi alleno tutti i giorni: corro, faccio pesi, vado a cavallo, insomma mi do da fare, senno qui si arruginisce tutto. L’età è considerevole, non posso negarlo. Ma non sono capace di stare fermo e di non pensare al futuro».

Si, però c’è anche un passato pieno di soddisfazioni.
«Ho scritto 135 successi importanti. Non sono in tanti nel mondo a poter dire la stessa cosa. Anzi, forse non c’è nessuno a poter vantare uno lista di hit così corposa».

Ha scritto tantissimo. Lo sa quante canzoni ha firmato?
«Forse 1500, forse 2000. Ma non vuol dire nulla. Contano i successi. A volte mi capita di ascoltare un pezzo che qualcuno mi dice che ho scritto io. Vado a controllare alla Siae ed è così. Non posso ricordarmele tutte, molte le ascolto come se le avesse scritte un altro, anche se poi lo stile è riconoscibile».

La prima è stata Briciole di baci. Diceva: «Briciole d’amore volano nell’aria e con un gaio mulinello si rincorrono nel vento».
Anno 1960.
«L’avevo scritta con Donida e la cantò Mina. Si, quella è stato il mio primo testo».

Suo padre era direttore generale della Ricordi, quindi lei è cresciuto nel mondo della discografia. Ma come è venuta l’idea di scrivere testi per le canzoni?
«È che quando gironzolavo alla Ricordi leggevo i testi delle canzoni e davo suggerimenti. Avevo 20 anni. A furia di dare suggerimenti ho cominciato a fare le versioni italiane di pezzi stranieri. Mi pagavano 5000 lire a canzone. E, siccome avevo bisogno di soldi, ne ho fatte tantissime».

Titoli storici da Sognano California a Senza luce, versione italiana di A Whiter Shade of Pale, a Ragazzo solo, ragazza sola, traduzione di Space Oddity di Bowie. Ma perché scelse di firmare con uno pseudonimo e non con il nome vero?

«Per non fare confusione con mio padre. E non è stato semplice scegliere. Avevo una rosa di venti nomi. Alla fine la scelta la fece la Siae».

La sua storia, pur così intensa, è segnata indelebilmente dalla collaborazione con Battisti. Ha nostalgia di quegli anni?
«Non sono uno che vive guardando al passato».

Però, si è rivolto alla magistratura per liberare le canzoni che ha scritto con Battisti dai vincoli ferrei imposti dalla moglie Grazia Letizia Veronese.
«E sono stato felice di aver vinto. Ora spero che ci sia una liberalizzazione completa dell’uso delle canzoni. Non si può proibire di farle vivere e usarle per film, sigle, anche pubblicità».

C’è ancora qualcosa di inedito della vostra collaborazione?
«C’è la bellissima Il paradiso non è qui, che doveva far parte del nostro ultimo album, Una giornata uggiosa. Solo che avevamo già undici canzoni e restò fuori».

Quando lei la fece cantare a Ron, al Premio Mogol del 2011, la vedova Battisti intimò alla Rai di non trasmetterla. E non venne trasmessa.
«Un divieto incomprensibile. Quella canzone non è mai stata depositata alla Siae. Si potrebbe perfino considerarla di anonimo e, quindi, nulla vieterebbe di farla ascoltare».

Su YouTube c’è il provino cantato da Lucio, voce e chitarra, con un bel po’ di visualizzazioni. Ma è l’unico brano inedito che c’è?
«È l’unica cosa importante nostra rimasta. Poi c’è altra roba scritta con Panella, ma quelle non sono cose che mi riguardano».

E lei ha canzoni nuove nel cassetto?
«Ci sono cose molto interessanti. Ho fatto un testo su musica di Morricone per l’inno delle Olimpiadi del 2024. Ne ho fatta una con Lavezzi e magari potremmo mandarla a Sanremo, anche se lì ora non interessa la qualità, ma solo il nome dell’interprete. Scrivo anche con mio figlio. Ma il problema è chi le canta. Mi fa fatica portare le canzoni ad ascoltare a qualcuno. Telefono solo agli amici. Non so propormi e sono diventato molto diverso da quando ero giovane, allora ero molto intraprendente. Sono anche convinto di non scrivere peggio di una volta. Anzi. Ma viviamo in un mondo talmente incomprensibile...».

Mina e Celentano, due che hanno cantato molte sue canzoni, stanno facendo un disco assieme. Non ha proposto nulla a loro?
«Avrei un brano che mi piace scritto anni addietro con Gianni Bella. Sarei dovuto andare a Milano a farlo ascoltare a Massimiliano Pani. Ma non sono potuto partire. Non so se ora hanno già scelto tutti i pezzi».

In giro sente autori di testi che le piacciono?
«La verità è che non ascolto proprio nulla. E quello che ho sentito non mi interessa molto. Fra i giovani mi sembrano bravo Giuseppe Anastasi che scrive per Arisa e Son Pascal, un artista campano che vive in Kazakistan dove è arrivato al numero uno».

Lei è noto per la facilità di scrittura. Ma c’è una canzone che l’ha fatta soffrire?
«La seconda parte di Emozioni. Avevo scritto l’inizio a casa, poi quel giorno sono dovuto partire e ho continuato a lavorare sulla mia 500 giardinetta dove non c’era un giradischi. Così ho dovuto fare tutto a memoria, senza poter ascoltare la musica ma neppure scrivere dovendo guidare. Sono stati 200 chilometri tremendi, tra l’altro non in autostrada».

Diceva che pensa sempre al futuro. Cosa c’è in ballo?
«Il debutto di Capinera, la mia prima opera con la musica di Gianni Bella, che Gustav Kuhn metterà in scena nel 2017 in Svizzera».

Mogol se la sente di fare un bilancio della sua vita?
«È stata ricca e fortunata. Per quello che ho fatto da incosciente, nel mare e dappertutto, sarei dovuto morire venti volte».


 
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