Mollicone, tra errori, omertà e l'ombra dei depistaggi in stile Cucchi: una storia italiana

Quello della ragazza uccisa il primo giugno del 2001 mentre si stava preparando per gli esami di maturità resta uno dei delitti irrisolti più oscuri d’Italia

Mollicone, errori, omertà e l'ombra dei depistaggi in stile Cucchi: una storia italiana
di Valeria Di Corrado
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Sabato 16 Luglio 2022, 00:32 - Ultimo aggiornamento: 12:45

dal nostro inviato


CASSINO - 
Il corpo senza vita di una ragazza di 18 anni nascosto in un boschetto della Ciociaria con la testa incappucciata in un sacchetto di plastica, mani e piedi legati con scotch e fil di ferro. Un carrozziere arrestato per quell’omicidio e poi scagionato da ogni accusa. Un brigadiere che dopo 7 anni rivela ai pm di aver visto il giorno del delitto quella ragazza entrare nella caserma dei carabinieri di Arce e due giorni dopo l’ultimo interrogatorio viene trovato morto nella sua auto con il petto squarciato da un colpo sparato dalla pistola d’ordinanza. Una porta di legno, sempre di quella caserma, che diventa la prova “regina” e dà la svolta per risolvere il caso. Così l’ex comandante della stazione, che inizialmente aveva indagato sull’omicidio, si ritrova a processo insieme al figlio, alla moglie e a due militari suoi sottoposti. 

Serena Mollicone, tutti assolti: e la folla inferocita cerca di linciare i Mottola. Dopo 21 anni l’omicidio è ancora senza un colpevole

Quello di Serena Mollicone - uccisa il primo giugno del 2001, mentre si stava preparando per gli esami di maturità - resta uno dei delitti irrisolti più oscuri d’Italia.

A complicare la soluzione di questo caso hanno contribuito presunti depistaggi, errori grossolani da parte della Procura di Cassino e il clima omertoso di Arce, che nemmeno 21 anni dopo è cambiato. Almeno fino a ieri, quando - dopo la lettura della sentenza di assoluzione di tutti gli imputati - all’interno e all’esterno del tribunale di Cassino è esplosa la rabbia della gente: «Assassini! Vergogna!». 

 

ANALOGIE PROCESSUALI
L’assassinio di Serena Mollicone ha due analogie processuali. Un’intera famiglia, quella dei Mottola, viene accusata di essersi spalleggiata e coperta, come era successo dopo il delitto di Marco Vannini, nel maggio 2015 a Ladispoli, per cui sono stati condannati l’ex militare della Marina Antonio Ciontoli, la moglie e i due figli. I genitori di Marco ieri si sono presentati in aula proprio per mostrare solidarietà alla famiglia di Serena. «La Mollicone, come Vannini, si sarebbe salvata se fosse stata soccorsa - aveva spiegato il pm durante la requisitoria - ma muore per effetto di una condotta attiva, perché i Mottola, tutti presenti, erano tutti concordi sul da farsi». Impostazione che non è stata accolta dalla Corte d’assise di Cassino. I successivi presunti depistaggi nelle indagini - che hanno portato a processo anche l’ex luogotenente dei carabinieri Vincenzo Quatrale e l’appuntato Francesco Suprano - sembravano ricordare quelli messi in atto dall’Arma dopo la morte di Stefano Cucchi. La tenacia della sorella Ilaria è stata determinante per risolvere quel “cold case”. Guglielmo Mollicone è stato altrettanto tenace, combattendo per 18 lunghissimi anni per ottenere la condanna dei responsabili del brutale assassinio della figlia. Ma nel novembre 2019, l’anno in cui era stato chiesto il rinvio a giudizio per la famiglia Mottola, morì per un infarto. La sua verità ce l’aveva chiara: secondo lui Serena quel giorno si era recata nella caserma per denunciare il figlio del maresciallo, responsabile - a suo dire - di spaccio (circostanza che non ha mai trovato riscontro).

 

DEPISTAGGI E OMERTÀ
«Il principale sospettato ha indagato su stesso, un caso unico in Italia», aveva precisato il pm nella requisitoria, facendo riferimento all’ex maresciallo. Fu infatti lui a sentire testimoni, cercare prove e raccogliere la prima denuncia di scomparsa presentata dal padre della ragazza la sera del primo giugno 2001: «Mi aprì la porta, come se mi stesse aspettando». Franco Mottola era accusato di aver approfittato del suo ruolo di comando per allontanare i sospetti dal figlio Marco, nei primi mesi dell’indagine, cruciali per risolvere un delitto. Il cellulare della ragazza, che inizialmente sembrava scomparso, venne ritrovato in un cassetto di casa che era già stato controllato dagli stessi carabinieri. Sull’apparecchio, stranamente, non c’erano impronte. Mentre nella rubrica era registrato il numero 666, sotto il nome: “diavolo”. Questo particolare fece virare le indagini verso una pista satanica, che non trovò poi alcun riscontro. Addirittura, i sospetti vennero indirizzati sul padre di Serena, “prelevato” dai militari dalla chiesa durante il funerale, intercettato e interrogato per ore. Il 6 febbraio del 2003 finì in carcere, da innocente, e ci rimase per oltre 17 mesi Carmine Belli, il carrozziere di Rocca d’Arce, arrestato con l’accusa di aver assassinato una 18enne e poi assolto in via definitiva nel 2006. Sentito l’anno scorso come testimone nel processo a carico della famiglia Mottola, ha spiegato ai giudici: «Avevano bisogno di uno str...o da accusare e hanno trovato me». Belli aveva riferito al maresciallo di aver vista Serena la mattina della sua scomparsa al “Bar della Valle” che litigava con un ragazzo con i capelli a spazzola. La stessa dichiarazione rilasciata anche dalla barista Simonetta, che all’inizio aveva riconosciuto quel ragazzo in Marco Mottola e poi, in un secondo interrogatorio, si era rimangiata tutto. Bisognerà aspettare la riesumazione del cadavere di Serena, nel 2016, per avere la prima vera perizia medico-legale, visto che la Procura (a suo tempo) non aveva nemmeno disposto l’autopsia, accontentandosi di una semplice ispezione cadaverica.

La svolta sembra arrivare nel marzo 2008, quando il brigadiere Santino Tuzi raccontò ai pm di aver visto Serena raggiungere l’alloggio del comandante Mottola quel famoso primo giugno, dove secondo la Procura, la ragazza è stata uccisa dopo una discussione (per ragioni mai chiarite) con Marco: sarebbe stata spintonata e avrebbe sbattuto la testa contro una porta perdendo conoscenza. «Santino Tuzi si è suicidato perché lasciato solo da tutti quelli che sapevano la verità», ha precisato lo stesso pm che inizialmente lo aveva giudicato inattendibile. Il movente del delitto resta un mistero. Mollicone è sempre stato convinto che fosse da rintracciare nei contrasti sullo spaccio di droga tra sua figlia e Marco Mottola. Proprio ad Arce c’è una villa in cui in quel periodo abitava il boss Gaetano Marino, capo dell’ala militare degli Scissionisti della camorra, e vi organizzava feste con forze dell’ordine e autorità locali. Serena voleva fare la giornalista. Forse questa sua indole investigativa l’aveva portata a scoprire scomode verità, che, in un angolo dell’apparente tranquilla periferia ciociara, sarebbero dovute restare segrete.
 

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