A quei tempi ero occupatissimo e vivevo con dei carrettieri. La testa mi risuona ancora degli urli grossi di comando e del cigolio delle martinicche. Tenevamo il nostro raduno nel cortile e sotto l’androne di un certo stallaggio che, le sere di partenza, era una bolgia di lanterne e di voci irose come staffilate. Fantesche e garzoni che ci davano l’avvio, anelavano a vederci in strada, perché soltanto allora potevano fermarsi sulla soglia a respirare: lo schiocco delle nostre fruste era la loro liberazione.
Anche per noi la staffilata larga, sparata fuori dell’androne sul fianco dei cavalli, era il segnale che cominciavano la condotta e la notte. Di primo buio ci si accompagnava, se faceva stellato, a due a tre sulla banchina della strada avendo l’occhio al cavallo di testa e alle biforcazioni, perché la carovana va come un treno e tutto sta che sia incamminata bene. Poi cominciavano i più vecchi a restare indietro e montare sui vari carri; noi giovanotti si aveva sempre qualche discorso da finire e un’ultima sigaretta da chiedere. Ma si saltava sui sacchi anche noi alla fine e il dormiveglia cominciava.
Quante notti passai così accovacciato sui sacchi, dondolandomi negli occhi la lanterna che nel dormiveglia non distinguevo più se era appesa sotto il carro precedente...
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