Intervista impossibile a Lorenzo de' Medici: «Con i denari di famiglia sono diventato Il Magnifico»

Intervista impossibile a Lorenzo de' Medici: «Con i denari di famiglia sono diventato Il Magnifico»
di Marco Barbieri
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Mercoledì 25 Agosto 2021, 09:00 - Ultimo aggiornamento: 26 Agosto, 04:54

La prego, non cominci tutto con i Canti carnascialeschi… La tolgo dall'imbarazzo e declamo: Quant'è bella giovinezza, che si fugge tuttavia; chi vuol esser lieto sia: di doman non v'è certezza. Contenuti?».

Grazie Magnifico, all'anagrafe Lorenzo di Piero de' Medici. In questo numero del nostro ABC del Risparmio parliamo di passaggio generazionale. L'ideale parlarne con lei.

«Sono qualcosa di più di un erede. Nonostante rappresenti la terza generazione, io non ho dissipato, ma costruito, aggiunto, creato».

Di questi tempi una mosca bianca. Non è facile trovare competenze e voglia in chi ereditare una fortuna.

«Certamente mio nonno ha iniziato tutto.

Giovanni di Bicci de’ Medici s’è inventato il mestiere. Figlio di mercante s’è fatto banchiere. E che banchiere! Se non avessi saputo che l’espressione molti secoli dopo è diventata poco garbata, avrei detto banchiere di Dio».

Perché fu banchiere del Papa…

«Certo. Ai suoi tempi i Medici erano una famiglia di riguardo e poco più. Non erano ancora i padroni di Firenze e i finanzieri d’Europa. Tutto cominciò proprio da lui».

Lo abbiamo visto qualche anno fa in televisione, la fiction dedicata alla sua famiglia. Giovanni, il capostipite, interpretato da Dustin Hoffman. Una saga complicata, come tutte le grandi vicende familiari.

«La mia famiglia non ha molto di normale. Banchieri e signori. Signori perché banchieri, non per diritto araldico o per il riconoscimento prodotto da una propensione alla battaglia per l’Imperatore o per il Papa. Sempre privati cittadini, nessun ruolo istituzionale, se non quello di “Magnifico Messere”; per quello fui il “Magnifico”. Toccò a me, a mio padre, a coloro che detenevano la carica di Gonfaloniere di Giustizia, ossia il grado più elevato della Repubblica fiorentina. Un titolo onorifico affidato ai “padroni” di Firenze e non solo. Capaci di far fruttare il denaro e di costruirci il potere reale, compreso quello artistico. Dopo il fondatore, Giovanni e dopo suo figlio Cosimo, toccò a me, figlio adolescente del suo primogenito, Piero. Ma mio padre non fu mai considerato degno di succedere a Cosimo al Banco di famiglia. Era gottoso, malfermo in salute; tanto quanto mio zio Giovanni, secondogenito di Cosimo, era scapestrato. Una vita di stravizi e una morte prematura».

Toccò a lei. C’è chi disse che alla storia della letteratura italiana venne tolto un poeta non banale, forse uno dei maggiori petrarchisti. Rimasto poi solo un dilettante dell’arte.

«Ma quale dilettante! Lo scrissi: “Convien giocare e spender bei quattrini”. Il diletto fu gran parte della mia vita. Diletto nobile, non gaudente. Ebbi una sola moglie. E tanti amici d’arte e di pensiero: da Pico della Mirandola a Marsilio Ficino, da Angelo Poliziano a Luigi Pulci, e poi artisti quali il Verrocchio, il Pollaiolo, Filippo Lippi e Sandro Botticelli. Solo Leonardo da Vinci preferì Milano, pur di allontanarsi dal Verrocchio».

Non le mancarono i soldi e nemmeno il fiuto nella politica.

«Mi chiamarono l’ago della bilancia della politica italiana. Ma condussi le relazioni sempre con leggerezza».

Beh, nella congiura dei Pazzi non ci andò con mano leggera.

«Ammazzarono mio fratello Giovanni. E ferirono anche me. Buono sì, magnifico, ma con i piedi ben piantati in terra. Posso citarmi? “Dica pur chi mal dir vuole, noi faremo e voi direte”».

Pragmatico. Ma spendaccione, dicono i maligni. Vero?

«Mi hanno dipinto come un gaudente, amante della vita, al contrario di mia moglie Clarice Orsini, romana, rigida, austera, profondamente religiosa e poco edotta di letteratura e cultura umanistica. Ciononostante, ci amammo. Io che teorizzavo l’amor cortese come pratica riservata al di fuori del matrimonio, non ebbi alcun figlio illegittimo. Le fui fedele. Gaudente, ma fedele. Non era poco ai miei tempi».

Ma molto gaudente. Le rinfacciarono sontuose spese per l’abbigliamento.

«Spendevo circa 17mila fiorini l'anno. Troppo? Tenga conto che un fiorino erano circa 3,5 grammi d'oro. Ai vostri tempi probabilmente più o meno 3 milioni di euro all'anno di spese per vestiti. Ma ero pur sempre il Magnifico». 

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