Pensione complementare: come funziona, cos'è il tasso di sostituzione e come si calcola

Pensione complementare, cos'è il tasso di sostituzione e come si calcola
di Mario Baroni
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Mercoledì 4 Agosto 2021, 06:58 - Ultimo aggiornamento: 13:12

Basterà l’assegno di pensione per vivere, quando avremo smesso di lavorare? La domanda può provocare inquietudini. Ma ha il vantaggio (che è però anche uno svantaggio) di parlare al futuro prossimo venturo: per i più giovani si tratta di un futuro remoto, visto che per chi lavora oggi – con l’allungamento dell’età media della vita – l’uscita dal lavoro per motivi anagrafici si avvicina ai settant’anni.
È la domanda che si traduce nella definizione del cosiddetto “tasso di sostituzione”. Rispetto al salario mensile medio che ricevi oggi, quale sarà la percentuale che ti verrà restituita sotto forma di pensione? Se guadagni 100 lavorando, in pensione avrai 80 o 60? C’è una bella differenza.


Ci eravamo abituati a tassi di sostituzione intorno all’80%, quando vigevano le regole del calcolo retributivo della pensione. Cioè quando il calcolo della pensione si elaborava sulla base delle buste paga degli ultimi anni. Da qualche anno è invece subentrato il calcolo contributivo.

Ovvero, la pensione che avrai sarà commisurata sul totale dei contributi versati (il montante) individualmente, nel corso di tutta la carriera lavorativa. Mediamente il rischio è di vedere un tasso di sostituzione meno generoso (più vicino al 60% che all’80%), non per una cattiveria insita nel nuovo calcolo, ma per le caratteristiche complessive del percorso di lavoro: discontinuità (periodi di non lavoro e quindi di assenza di contributi), retribuzioni non troppo ricche.

E poi dipende da alcuni fattori di sistema, come l’andamento del Pil del Paese: le crisi economiche fanno male anche alle generazioni future.


Del resto, la pensione è pur sempre una forma di restituzione, un salario differito nel tempo, ma costruito nel passato, cioè durante il periodo di lavoro. I contributi obbligatori servono a questo, anche perché i conti debbono quadrare. Se si smette di lavorare troppo presto (quando si è ancora giovani), la durata del periodo prevedibile di erogazione della pensione rischia di essere eccessiva rispetto a quanto è stato “messo da parte”. Quindi, se l’aspettativa di vita aumenta, o si allunga il tempo per conseguire la pensione o si avrà una pensione più modesta. La torta resta la stessa. E la dimensione della fetta dipende dal numero delle fette cumulate.
La pensione non è un ginepraio, ripropone la complessità della vita. E non può essere solo una scelta individuale, perché le cicale non possono essere mantenute dalle formiche oltre una ragionevole soglia di solidarietà. Il tema della solidarietà c’è ed è fondamentale in ogni sistema previdenziale, ma proprio per questo deve trattarsi di una solidarietà sostenibile. Il nostro sistema si definisce a “ripartizione”. Cioè la prestazione pensionistica viene pagata dalla massa contributiva incassata dai lavoratori attivi. Ecco perché anche la questione demografica è decisiva per il futuro del Paese. Se ci saranno pochi lavoratori, ci saranno meno contributi da dividere. Per questo un Paese che fa pochi figli è un Paese sulla soglia della crisi.


I contributi obbligatori durante la nostra vita lavorativa servono ad alimentare il sistema previdenziale e quindi in buona parte anche la nostra pensione ma in un orizzonte collettivo. Se, per essere previdenti (la parola previdenza viene di qui) volessimo prepararci una seconda pensione complementare, dovremmo pensare a una contribuzione aggiuntiva nel corso degli anni di vita lavorativa. Qualcosa di simile a una polizza assicurativa, per accumulare un capitale in grado di fornirci una rendita finanziaria aggiuntiva quando non lavoreremo più.


È l’orizzonte della previdenza complementare. Non obbligatorio, ma sempre più indispensabile per l’incrocio di quei fattori che abbiamo ricordato: crisi demografica (cioè poche nascite), allungamento dell’aspettativa di vita (si vive più a lungo), economia frenata (Pil in crescita modesta), retribuzioni poco ricche e discontinuità lavorativa.
La “pensione di scorta” è da sempre una necessità per i Paesi scandinavi e anglosassoni – dove la pensione di primo pilastro viene pagata dalla fiscalità generale o deriva da una contribuzione obbligatoria di modesta entità. Per i Paesi latini, Italia in testa, è una necessità recente, di fronte a una profonda revisione delle spese dello Stato e della redistribuzione nel passato troppo generosa e persino irresponsabile.


Non si tratta di scomodare Sir Beveridge o il cancelliere von Bismarck – i capostipiti dei due grandi modelli di previdenza obbligatoria, in capo allo Stato o in capo ai modelli assicurativi – ma di prendere coscienza della contemporaneità e dei mutamenti in corso. La previdenza personale deve imporre attenzioni e scelte alle quali i nostri genitori non sono stati chiamati, ma che i nostri figli potrebbero assumere tardivamente. Ora e sempre, previdenza.
 

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