Successione, Pietro Giuliani (Azimut): «Eredi si nasce ma non basta». Come affrontare il passaggio generazionale

Successione, Pietro Giuliani (Azimut): «Eredi si nasce ma non basta»
di Marco Barbieri
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Mercoledì 25 Agosto 2021, 09:00 - Ultimo aggiornamento: 26 Agosto, 12:58

Pietro Giuliani, in questa ritrosia alla programmazione in tema successorio c’è qualcosa che somiglia alla timidezza con la quale gli italiani di avvicinano anche ai temi della protezione assicurativa o della previdenza complementare?
«In qualche modo sì. In fondo anche quando parliamo di rendite vitalizie c’è di mezzo un trasferimento di ricchezza, tra chi vive di meno, e paga, e chi vive di più, e prende. C’è di più. Noi latini abbiamo un senso della proprietà e della famiglia, che non è condiviso con queste modalità nell’Europa del Nord o negli Stati Uniti, per limitarci a un confronto con il mondo occidentale. E questo spiccato senso della proprietà e della famiglia a volte rende meno lucidi».
Il tema dell’eredità è influenzato anche dalle pretese del Fisco?
«Certamente. Ma in questo caso è necessario riconoscere che viviamo in una sorta di paradiso fiscale. Il 4% per gli eredi diretti è davvero poca cosa. Si consuma alla fine della vita una specie di contrappasso: tante tasse durante la vita, pochissima pressione fiscale nel momento della transizione. A vantaggio degli eredi, che finiscono per godere del patrimonio accumulato dalla generazione precedente».
Questo vantaggio degli eredi si trasforma in una opportunità di ulteriore patrimonializzazione o si esaurisce in una occasione di facile consumo?
«A dire la verità, almeno se parliamo di passaggio generazionale a livello di impresa, vedo una crescente inadeguatezza delle giovani generazioni a subentrare. E questo si concretizza – l’ho visto chiaramente negli ultimi 10-20 anni – in una tendenza ad avere poca voglia di fare il passaggio generazionale in azienda. Riscontro l’aumento di persone che pur in età avanzata non lasciano lo scettro alla famiglia. Non per egoismo eccessivo, ma per realismo. Se dovessi indicare una percentuale direi che solo il 5-10% delle imprese italiane possono contare su una nuova generazione pronta ad assumere la responsabilità della conduzione aziendale».


Crisi vocazionale?
«L’attaccamento all’impresa e la passione non si ereditano. Si possono modellare, educare, rafforzare. Ma non si possono trasferire. A volte essere nati ricchi non aiuta. L’imprenditore che continua a reggere le sorti dell’impresa non è un avido e diffidente. E’ quasi sempre una persona che non ha visto eredi adeguati a dare seguito all’attività, ben sapendo che l’impresa coincide con un duro lavoro. E allora vende».
Mi ha preceduto. Visto che in qualche modo il passaggio generazionale deve consumarsi, la vita non è infinita, come si affronta il tema? Quali scelte si impongono?
«Meglio vendere un’azienda a un fondo o a un competitor, piuttosto che vederla fallire. La vendita dell’azienda consente di trasformare il patrimonio in un bene più facilmente trasferibile agli eredi: la liquidità da gestire».
Questo però depaupera il patrimonio nazionale delle imprese.
«Purtroppo sì. Ma questo avviene anche per una carenza di strutture finanziarie italiane che possano garantire un passaggio di proprietà più agevole tra italiani. E per una carenza di classe imprenditoriale. Ma per chi trasferisce un patrimonio, l’importante è renderlo fruibile, gestibile. E la vendita dell’azienda trasforma in liquidità e gestibilità finanziaria quel patrimonio in parte intangibile che è un’azienda».
Ma il passaggio generazionale riguarda anche il trasferimento di immobili o di una attività commerciale o di ristorazione.
«In tutti i casi c’è bisogno di un gestore nuovo, che se non è l’erede, deve essere un terzo, capace di favorire il passaggio, dissipando meno valore. Anche trasferire un negozio non è scontato: o l’erede cresce nella gestione dell’attività, nella relazione con i fornitori, nel rapporto con la clientela e la sua trasformazione, oppure finirà per creare le condizioni per la chiusura di quell’esercizio. Lo stesso dicasi per uno o più immobili. O si tratta di immobili di facile vendita o di buona rendita, oppure ancora una volta la liquidazione del bene prima del passaggio generazionale può essere la scelta prioritaria. A condizione di individuare un adeguato gestore del risparmio».
Quindi anche per gli immobili è consigliabile una transizione attraverso una liquidazione del bene?
«Molto spesso si ereditano immobili onerosi da gestire e poco adatti a produrre redditività. In questo caso il conferimento a un fondo immobiliare, verificandone l’appetibilità, può essere la via maestra. La vendita è il ripiego, come nel caso dell’azienda. Un ripiego spesso necessario».
Però anche lasciare dei soldi potrebbe essere una scelta rischiosa. Facile, ma rischiosa.
«Quando parlo di liquidazione del bene, prima del passaggio generazionale, implicitamente suggerisco il percorso che porta alla gestione del risparmio.

Ci sono formule diverse per assicurare una rendita e per conservare il patrimonio, se parliamo di valori non bassissimi».


Arriviamo ai consigli. Nel variegato panorama di soluzioni, ci sono consigli pratici da fornire a chi vorrebbe pensare per tempo a questa transizione?
«Ci sono due estremi entro i quali muoversi. Il primo è il modello molto anglosassone del “trust”. Vuol dire spossessarsi del patrimonio, per conferirlo a un “trustee” di cui occorre fidarsi, che subentra nella titolarità del bene, o dei beni, con la finalità di assicurare una rendita, correlata al rischio di investimento che viene definito. L’altra possibilità, più latina, si affida all’industria del risparmio gestito. Il patrimonio viene conferito per la semplice gestione. Si tratta di organizzare un portafoglio diversificato, che possa produrre un rendimento in linea con le esigenze del proprietario dei beni. Ovviamente in questo secondo caso non c’è nessuna blindatura, quindi i beni gestiti possono anche finire per essere venduti».
Ma entro questi due estremi ci sono possibilità intermedie?
«Certamente. La più praticata è la fiduciaria statica, una società di capitali, alla quale conferire beni di ogni tipo (immobili, liquidità, quote societarie), impegnando i soci a un patto sottoscritto in cui si danno istruzioni irrevocabili per la gestione, e si individuano vincoli al rendimento. Tra i soci ci devono essere sia il proprietario iniziale, sia gli eredi. E’ una soluzione molto elastica, che non genera costi eccessivi di gestione, da mille euro all’anno in su. In un certo senso è anche la soluzione meno “traumatica” per chi si convince della necessità di anticipare il “passaggio”».

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