Mediaset-Vivendi, il governo in campo ma non ha strumenti

Mediaset-Vivendi, il governo in campo ma non ha strumenti
di Alberto Gentili
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Giovedì 15 Dicembre 2016, 07:54 - Ultimo aggiornamento: 15:44

«Dopo Monte dei Paschi, ecco Vivendi. Ci saltano al collo perché in seguito alla vittoria del No al referendum e alla caduta del mio governo, l'Italia appare un Paese più debole». È cruda e impietosa l'analisi di Matteo Renzi, che ormai osserva la politica con amaro distacco dalla sua Pontassieve. «Oggi sono andato a fare la spesa», racconta soddisfatto per aver riacquistato «una vita normale». «Mi godo finalmente moglie e figli».

Ma il distacco di Renzi non può essere quello di Paolo Gentiloni. L'ex ministro degli Esteri, da ieri premier a tutti gli effetti dopo il voto di fiducia del Senato, ha così fatto scendere in campo il ministro dello Sviluppo e delle Comunicazioni, Carlo Calenda. L'ha fatto intervenire con una nota ufficiale, la prima di un governo a favore di Mediaset, quando ha visto Vivendi di Vincent Bolloré salire al 20% del capitale di Cologno Monzese. E quando ha sentito Silvio Berlusconi tentare la reazione: «Non ci lasceremo ridimensionare».

Ma ecco la nota di Calenda: «Il governo italiano ha assoluto rispetto per le regole di mercato», tuttavia «non sembra davvero che quello che potrebbe apparire come un tentativo, del tutto inaspettato, di scalata ostile a uno dei più grandi gruppi media italiani, sia il modo più appropriato di procedere per rafforzare la propria presenza in Italia». E ancora: «Gli investimenti stranieri sono sempre benvenuti, quando portano capitale di crescita e competenze e contribuiscono allo sviluppo del tessuto industriale italiano. Quando però si tratta di un'azienda che opera in un campo strategico come quello dei media, il modo con cui si procede non è irrilevante. Mi pare che questo principio sia in Francia ampiamente riconosciuto e assertivamente difeso. Il governo monitorerà con attenzione l'evolversi della situazione».

Parole ferme, quelle del ministro. Parole, però, che non porteranno ad alcuna azione concreta. E questo perché, al contrario di quanto tentò Giuliano Amato nel 2001 a difesa di Edison, quando si studiò la possibilità di una golden share politica con potere di veto da parte del ministero dell'Economia, le comunicazioni non sono un settore strettamente strategico.

UN SEGNALE POLITICO
La mossa di Gentiloni e Calenda, insomma, è essenzialmente una moral suasion verso il gruppo francese che controlla anche Telecom Italia. «E un gruppo che ha consistenti investimenti nel nostro Paese», osservano a palazzo Chigi, «non può muoversi in questo modo. Detto questo, rispettiamo il mercato e dunque non interverremo». Un'altra fonte di alto rango che ha in mano il dossier aggiunge: «Il nostro non può essere altro che un segnale politico. Mediaset si occupa di tv e non di settori strategici come l'energia o le reti di trasporto. Non ci sono i presupposti per una golden share politica. Del resto nessuno disse nulla quando Berlusconi andò in Francia e in Spagna a comprarsi reti televisive».

Insomma, Gentiloni - che di tv se ne intende essendo stato ministro delle Comunicazioni - oltre che a difendere politicamente Mediaset, ha voluto mandare un segnale a Berlusconi. Un segnale di «vicinanza» e «sostegno» che potrebbe risultare molto utile per una navigazione più tranquilla del governo in Parlamento. E, soprattutto, potrebbe rivelarsi utilissimo quando si imbandirà il tavolo delle trattative per riscrivere la legge elettorale. Senza i voti di Forza Italia, infatti, sarà praticamente impossibile per il Pd raggiungere una maggioranza che approvi il nuovo sistema di voto per la Camera (il 24 gennaio la Consulta con ogni probabilità cambierà i connotati all'Italicum) e sui meccanismi elettorali per l'elezione del Senato. Tant'è, che un'ulteriore prova dell'attenzione verso il Cavaliere arriva dal vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini, artefice del Patto del Nazareno: «Mediaset è una grande azienda, il governo dovrà studiare azioni che possano mettere in sicurezza, nel rispetto del mercato, un patrimonio italiano di fronte a una scalata ostile». E Berlusconi ha mostrato di apprezzare: in Senato nessun intervento forzista ha colpito con particolare asprezza il governo.

In ogni caso, è vero ciò che afferma Renzi. Dal giorno della vittoria del No al referendum, l'economia e la finanza italiane sono sotto assedio. Il primo segnale annotato a palazzo Chigi è stata la frenata del fondo d'investimento dell'emiro Al-Thani del Qatar a investire un miliardo nella ricapitalizzazione di Monte dei Paschi. «L'operazione era chiusa, si sono sfilati a causa della crisi di governo», disse allora Renzi. E qui si torna al punto di partenza. Alla debolezza italica post-referendum.

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