Roma, in mostra i vermicelli persiani di Mitra Divshali, nati dall’epistolario dello scrittore Sadegh Hedayat

In mostra i vermicelli persiani di Mitra Divshali, nati dall’epistolario dello scrittore Sadegh Hedayat
di Rossella Fabiani
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Lunedì 21 Marzo 2022, 13:33 - Ultimo aggiornamento: 14:05

E’ l’incontro magico di due anime. Quella di Mitra Divshali, artista iraniana che vive a Roma da quando ha lasciato il suo Paese per studiare prima a Londra e poi in Italia. E quella di Sadegh Hedayat, scrittore iraniano, autoesiliatosi a Parigi dove morì nel 1951 quando Mitra non era ancora nata. Ma un destino, per una volta benevolo, ha intrecciato i loro percorsi. Mitra, certo, conosceva bene le opere di Sadegh - che è il più letto e discusso scrittore iraniano, ancora oggi molto amato tra i giovani - ma l’idea di dedicargli un’intera mostra è nata quasi quattro anni fa quando ha letto le 82 lettere – ancora inedite in Italia – che Sadegh Hedayat scrisse a un suo amico e che sono state ritrovate dopo cinquant’anni in una soffitta di Parigi, chiuse in una cartella color porpora di fattura iraniana degli anni ’30-’40. Scritte su carta sottile, come quella per la posta aerea di una volta, con una minuziosa ed elegante calligrafia.

Erano le lettere indirizzate da Sadegh Hedayat al suo miglior amico, Hassan Chahid-Nourai, giurista di diritto internazionale, tra il 1946 e il 1950.

Queste lettere, pervase da quel suo tipico dark humour, sono una fonte inesauribile per conoscere Hedayat e il suo mondo. Oltre agli avvenimenti drammatici di quegli anni, le lettere rivelano l’ambiente sociale e politico a lui ostile, descrivono la sua vita a Teheran nelle giornate calde e rumorose estive o nel gelo dell’inverno. Le ore passate dietro la sua scrivania all’Accademia di Belle Arti, i pomeriggi e le sere trascorsi in solitudine o in compagnia di pochi amici a parlare di fatti letterari e politici, con giudizi e indiscrezioni sui più noti intellettuali e uomini di potere dell’epoca. Nella maggior parte delle lettere si parla di libri e di riviste che i due amici si spedivano da Parigi a Teheran e viceversa, ma anche degli avvenimenti di quegli anni in Iran.

Hedayat considerava i suoi contemporanei come “un gruppo di mendicanti, spudorati, sfrontati, pedanti”. Il suo giudizio nasceva dal loro atteggiamento ambiguo nei confronti della modernità, perché attaccati ciecamente al loro credo religioso o ideologico. Nella prefazione in inglese del suo libro “Tre gocce di sangue” c’è una frase che riassume il suo stato d’animo di quegli anni “virtual émigré in his own land”. Nonostante l’immediata fama dell’autore, che è viva anche ai nostri giorni, Hedayat venne considerato dall’establishment iraniano dei suoi tempi, un intellettuale decadente e un inguaribile pessimista. I suoi testi furono censurati o mutilati, a seconda del regime del momento, e alcuni di essi sono ancora proibiti in Iran. In Italia la traduzione del suo capolavoro “La civetta cieca” si deve all’iranista e islamologa Anna Vanzan.

La vita a Teheran per Hedayat era diventata insopportabile e fu proprio il suo amico Chahid-Nourai a spingerlo perché si trasferisse a Parigi. Hedayat acconsentì dopo un lungo periodo di indecisioni e alla fine ottenne il congedo dal lavoro e il passaporto. Al suo arrivo a Parigi, nel dicembre 1950, trovò l’amico Chahid-Nourai gravemente malato. Per qualche mese si recò spesso a fargli visita. Parlando poco. A volte seduto a guardarlo per ore, a volte per pochi minuti. In quel periodo Hedayat vedeva raramente altri amici, aveva provato invano a tenere un corso di lingua persiana in varie università europee, girovagava per le strade di Parigi che amava tanto e scriveva testi che poi lui stesso distrusse prima di morire. Hedayat si tolse la vita il 9 aprile 1951, a soli 48 anni, poche ore prima della morte dell’amico.

Dopo quasi mezzo secolo sono stati i figli di Hassan Chadid-Nourai a ritrovare in soffitta le 82 lettere che Hedayat aveva scritto a loro padre. I “vermicelli persiani”, come li chiamavano perché non conoscevano la scrittura persiana i cui segni possono, in effetti, somigliare – soprattutto per dei bambini – a strani vermetti. E Mitra Divshali ha voluto scegliere proprio questo nome per il titolo della sua mostra. “Le lettere di Hedayat mi hanno aperto una finestra su uno scenario che sembra attuale, uno squarcio drammatico di quegli anni che si ripropone come un loop. Un tragico tapis roulant da cui l’Iran sembra non riuscire a venir fuori”, dice Mitra. “Ma di fronte a queste lettere ho sentito anche l’energia, e persino la gioia, che soltanto un grande scrittore come Hedayat sapeva trasmettere quando, nonostante il suo pessimismo, trasformava l’orrore in sublime lasciando intravedere la luce nell’oscurità”.

Così, nell’immaginazione dell’artista le parole di Hedayat si sono colorate, ritagliate e incollate sulle tele. Si sono trasformate in forme indecifrabili – i “vermicelli persiani” che ricordano lo stile delle miniature classiche – inserite in una complessa installazione che comprende l’epistolario di Sadegh Hedayat in 20 quadri a tecnica mista, il percorso del viaggio dell’autoesilio da Teheran a Parigi tracciato in neon e alluminio con i nomi delle due città scritti riproducendo la grafia di Sadegh Hedayat e “Interferences” un video originale di 7 minuti realizzato appositamente dall’artista in bianco e nero, strutturato in cinque capitoli con immagini di repertorio e animazioni originali. Una mostra davvero da non perdere che si è aperta lunedì 21 nella galleria Studio Sales di Norberto Ruggeri, in Piazza Dante 2 a Roma, e che si potrà visitare fino al 20 maggio prossimo. La mostra è accompagnata da un catalogo pubblicato da Maretti Editore con testo critico di Laura Cherubini.
 

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