La fontana imbrattata/ Lo sfregio a Trevi, ma quale arte: ferita al decoro

di Mario Ajello
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Venerdì 27 Ottobre 2017, 00:15 - Ultimo aggiornamento: 00:22
Sull’irriproducibilità dell’opera d’arte c’è da discutere. Mentre è assodato che la patacca, lo sgorbio, l’obbrobrio, tra i loro tanti difetti, hanno anche quello di poter essere ripetibili all’infinito. Per fortuna il Cecchini (di nome Graziano, di professione sedicente artista) è un tipo pigro. 

Ha impiegato dieci anni per farsi venire l’idea (ma andiamoci piano con i paroloni) di risporcare di rosso l’acqua della fontana di Trevi. Convinto, naturalmente, di stare facendo una performance («Voglio risvegliare una città che dorme») e impegnato invece in un atto vandalico. Come quello del 2007.

Stavolta, però, magari consapevoli di quel che sosteneva Leo Longanesi - «L’arte è un incidente da cui non si esce mai illesi», e figuriamoci quanto si rischia di più quando l’arte è pseudo arte - i turisti innamorati di questo gioiello romano volevano linciare il Cecchini. Non riuscendoci, si sono limitati a twittare in tutti le lingue ai connazionali sparsi nel modo: «C’è un demente che infanga la Fontana di Trevi». 

Sono passati dieci anni dalla prima bravata. E se allora quel gesto assurdo e sprezzante della dignità e del decoro di Roma qualcuno erroneamente si sforzò di considerarlo curioso, adesso il remake risulta come minimo penoso. Una caricatura di una caricatura. Nel 2007, quando questa era una città con i suoi problemi non ancora diventati abnormi, ci fu chi addirittura - in preda a una cultura cheap - arrivò a tollerare quello sfregio, confondendolo con qualcosa di originale e di estroso. Oggi quel tipo di atteggiamento, leggero e provinciale fino all’insensatezza, è impossibile da coltivare e guai a chi prova a provarlo. Perché la situazione di Roma è ormai quella delle fontane prese d’assalto da chi le usa da piscine o da bidet; delle fontane mandate in pezzi dai neo-barbari (alcuni dei quali in cuor proprio magari si considerano artisti del piccone); delle fontane ridotte a discariche o a luogo di bivacco come tante altre parti pregiate della Capitale. A cominciare dalla scalinata di Trinità dei Monti. Insomma nella Roma d’oggi, quella del Cecchini recidivo, il gestaccio del verniciaio rappresenta un ulteriore oltraggio a una città già ampiamente oltraggiata. Ma ci dice anche un’altra cosa allarmante questo episodio. 

Dopo le multe annunciate, mentre i vigili sono stati finalmente mobilitati, quando sembrava essersi diffusa pian piano ma finalmente la consapevolezza del bisogno di proteggere questa celebre fontana dall’abuso degli ammiratori e dal caos permanente, basta un Cecchini redivivo per bucare ogni forma di tutela del decoro, sfuggire ai presunti controlli e mettere a segno quello che per lui è un gol a porta vuota (ma niente applausi dei presenti, solo fischi e foto ridicolizzanti) e che per Roma è un autogol a reti globali unificate. Dopo averne presi tanti, un altro ancora? Sì. 

Intollerabile l’imbrattatore. Ma intollerabile anche che abbia potuto realizzare la sua aggressione. Infliggendo l’ennesima vergogna a una Capitale che di vergogne ne patisce tante e proprio non ne può più. E se vogliamo scomodare Karl Rosenkrantz, uno dei primi studiosi a interrogarsi sull’«Estetica del brutto» (1853), potremmo dire (ridendo di noi stessi) che il Cecchini nell’assalto alla fontana abbia voluto dimostrare che «il brutto è l’inferno del bello». Invece il brutto è il brutto, e stavolta venga punito davvero.
 
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