Dal Tap ai rigassificatori: si scalda il fronte energia

Dal Tap ai rigassificatori: si scalda il fronte energia
di Andrea Bassi
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Martedì 19 Aprile 2016, 00:12 - Ultimo aggiornamento: 20 Aprile, 17:58
Il referendum dei no Triv è fallito. Ma le vie per bloccare o rallentare le opere sono infinite. Basta guardare quello che sta accadendo con il Tap, il gasdotto che dovrà portare in Italia il metano azero. Il governatore della Puglia, Michele Emiliano, che sul referendum anti-trivelle ha sfidato la leadership di Matteo Renzi nel Partito Democratico, è contrario anche a questo progetto, considerato invece dal governo essenziale per rendere l’approvvigionamento di gas per l’Italia più sicuro. Emiliano, insomma, potrebbe considerare il Tap come un terreno sul quale prendersi una rivincita. Il consorzio che deve costruire l’opera ha già tutte le autorizzazioni. I cantieri potrebbero cominciare. Il primo passo sarà spostare delle piante di ulivo, per poi scavare un pozzo dove far operare la talpa che dovrà realizzare il tunnel per far passare i tubi.

Per ogni passaggio l’autorizzazione ambientale unica, prevede la verifica che una serie di misure siano state attuate. Per spostare gli ulivi, Tap deve rispettare tre prescrizioni. Due di queste sono già state approvate da Regione e Arpa. La terza prevede la verifica delle cosiddette misure di mitigazione ambientale. Il via libera spetta sempre alla Regione Puglia, che ne ha già verificato il rispetto. Però poi ha chiesto a Tap di ottenere anche il via libera del Comune di Melendugno, fiero oppositore dell’opera. Un municipio dove la percentuale di partecipazione al referendum no Triv ha superato il 60%. Così il Comune continua a bocciare ogni proposta del Tap, ma allo stesso tempo, correttamente, ricorda che non spetta a loro valutare le prescrizioni, ma alla Regione. Che però continua a dire che senza il sì del Comune non si può andare avanti. Risultato: tutto fermo in un paradosso burocratico.
 
I NUMERI
Quello del Tap non è un caso isolato. Basta leggere gli ultimi dati pubblicati dal forum Nimby, che censisce le opere che in Italia vengono contestate a livello locale. L’ultima rilevazione disponibile riguarda il 2014. E i dati non sono confortanti. I casi osservati sono stati 355 contro i 336 dell’anno prima, il 5% in più. Il dato emblematico è anche un altro. Nel 62,5% delle rilevazioni è il comparto energetico il macrosettore più contestato.

Il balzo più significativo riguarda le opposizioni agli investimenti sugli idrocarburi: sui 91 impianti che per la prima volta hanno fatto la propria comparsa nel monitoraggio Nimby, ben 22 sono in questo settore. «In realtà», spiega Alessandro Beulcke, Presidente di Aris, il centro di ricerche che effettua la rilevazione, «le contestazioni riguardano tutto, anche l’eolico, il fotovoltaico e, recentemente, la geotermia». La sindrome del «no», insomma, non risparmia nulla, neanche le energie rinnovabili. «Il dato nuovo», osserva ancora Beulcke, «è dato dall’avvento dei social network, luogo di contatto tra i cittadini dove la contestazione ha trovato uno spazio ideale di comunicazione». Il punto centrale dei dati del Forum Nimby, resta comunque che, quando si parla di energia, è tutto un fiorire di no. Basta guardare anche alla storia dei rigassifficatori in Italia. Come quello di Brindisi, abbandonato dalla British gas dopo undici anni di tira e molla. O come quello di Porto Empedocle, in itinere da due lustri, che l’Enel ha messo in vendita e che sta per essere dichiarato opera d’interesse strategico per poter avere qualche prospettiva.

GLI INVESTIMENTI
Eppure le grandi società energetiche, sono tra quelle che ancora riescono a movimentare in Italia investimenti di una certa dimensione. Quegli stessi investimenti ritenuti motore essenziale della ripartenza economica. Eni, per esempio, qualche giorno fa ha presentato in Commissione industria al Senato, un dossier sugli impieghi in Italia degli ultimi sei anni e su quelli previsti nei prossimi quattro.

Dal 2009 e fino al 2015, la società petrolifera pubblica ha investito in Italia 17,2 miliardi di euro, e il 36% di questa cifra alla voce ambiente e sicurezza. Nei prossimi quattro anni sono previsti invece investimenti per altri 8,4 miliardi, il 40% dei quali sempre in ambiente e sicurezza.

Tanti soldi messi sul piatto richiedono certezza nei tempi e nelle procedure. E soprattutto che una volta ottenute le autorizzazioni ed effettuati i controlli, le opere non vengano bloccate dagli interessi locali. In realtà il referendum sulle trivelle anche di questo parlava, di equilibrio tra i poteri dello Stato centrale e quelli dei governatori. Una questione che potrebbe essere risolta definitivamente dal referendum di ottobre sulle riforme costituzionali che, se dovessero prevalere i «sì», restituirà al governo tutte le competenze in materia di energia.
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