Aramburu ha vinto lo Strega europeo «Vi racconto la vita ai tempi dell’Eta»

Fernando Aramburu
di Paola Del Vecchio
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Lunedì 14 Maggio 2018, 00:09 - Ultimo aggiornamento: 24 Maggio, 08:51
MADRID «Tutto cominciò con un appunto antico su un quaderno, al quale si unì, anni dopo, l’immagine di due donne che si abbracciavano. È quella che conclude Patria e si può dire che tutto quanto la precede, il romanzo intero, è un prologo a questa scena finale». Fernando Aramburu è nato nel 1959, lo stesso anno in cui nacque l’Eta. Dalla sua città, San Sebastián, duramente colpita dal terrorismo etarra, andò via nel 1985, trasferendosi ad Hannover, «per scelta personale e per senso di soffocamento» provocato dalla violenza, che per 50 anni ha funestato il Paese con crimini, guerra sporca, estorsioni, ricatti, silenzio e paura. Per quella storia di due famiglie e delle loro vicissitudini in un paesino dei Paesi Baschi, che si intrecciano con quella del gruppo terroristico Eta - divenuta un caso editoriale - lo scrittore basco ha ricevuto il Premio Strega Europeo. Un riconoscimento concomitante con un ciclo che si chiude, dopo l’abiura dichiarata dall’Eta il 3 maggio scorso, sei anni e mezzo dopo l’abbandono della lotta armata.

Uno scioglimento tardivo e senza menzione al dolore causato alle vittime. Aramburu, cosa significa per il Paese Basco?
«La dissoluzione dell’Eta è importante per i baschi, perché finalmente si può dire concluso un deplorevole ciclo di sangue. Ma la battaglia resta aperta sulla narrazione, sulla verità storica. L’Eta ha ancora i suoi cronisti impegnati a lavare il passato di una banda criminale e perpetrare nella memoria collettiva i suoi militanti come eroi che lottarono per liberare il loro popolo. La mia versione dei fatti è diametralmente opposta».

Quale?
«Ci furono crudeltà e carnefici, centinaia di persone assassinate, fra le quali ventidue bambini. E l’intenzione ferma di imporre un progetto totalitario con il terrore».

Euskadi è anche lo sfondo di Anni lenti, precedente a Patria e ora pubblicato da Guanda, in cui lei retrocede alla sua infanzia nella San Sebastián di fine anni ‘60, quando il terrorismo era ai primi passi. Quali erano gli anni lenti?
«L’epoca del franchismo, quando la dittatura era pienamente consolidata: sembrava che accadesse poco o nulla e il tempo era scandito da un ritmo interminabile».

Quanto c’è d’immaginario e quanto di autobiografico?
«Credo che nessuno possa scrivere se non di ciò che è basato sulla propria esperienza personale. Invento le mie storie, ma tutte hanno radici in quella collettiva, nelle mie circostanze personali e nella coscienza dell’essere umano. E per fortuna è così. Le poche cose che mi capitano sono irrilevanti per la scrittura. Sono fatto di solitudine e di libri».

La struttura sociale è molto patriarcale, benché dominata da donne forti: continua a essere la stessa nella regione o si è evoluta?
«Ha conosciuto grandi cambiamenti negli ultimi decenni. Oggi i Paesi Baschi sono una regione come molte altre in Europa, con le stesse influenze culturali. Durante la mia gioventù, il peso della famiglia ricadeva sulle madri, che avevano un grande potere in casa, ma anche un enorme carico di lavoro e responsabilità, che richiedeva forza fisica e mentale. Questo è cambiato, poiché le donne basche sono divenute indipendenti. E si ribellano a strutture familiari imposte dalla tradizione».

Che ruolo ha avuto il clero basco nell’indottrinamento dei giovani che passarono alla lotta armata? 
«Determinante. Basti ricordare che solo poche settimane fa i vescovi baschi hanno chiesto scusa per la connivenza con il terrorismo. Non significa che la chiesa basca sia tutta responsabile, ma non si può neanche dimenticare che molti sacerdoti si sono dedicati per decenni a diffondere l’ideologia nazionalista dai pulpiti».

Patria è nata dalla necessità di raccontare il conflitto basco. “Autoritratto senza di me”, una raccolta di conversazioni private fra prosa e poesia, ora pubblicata in Spagna, a quale esigenza risponde?
«A quella di conoscere, con la maggiore profondità possibile e in un linguaggio poetico, cosa significhi l’essere umano. O, meglio, cosa ci rende umani come esseri viventi. Ho voluto tracciare un ritratto personale, senza concessioni all’aneddotica. Ho concepito ogni brano come un luogo dove nessun essere umano possa sentirsi in salvo».
 
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