La professoressa Rachele Borghi analizza il retaggio postcoloniale per lottare contro i pregiudizi di genere

Rachele Borghi
di Valentina Venturi
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Mercoledì 26 Agosto 2020, 18:19
Rachele Borghi è docente di Geografia all’Università Sorbona di Parigi. Per la collana Culture Radicali di Meltemi editore ha pubblicato il saggio “Decolonialità e privilegio”, in cui osserva da una prospettiva femminista e decoloniale il modo in cui il sapere Occidentale, in particolare quello accademico, si presenta come universale e “ufficiale”, relegando le altre forme di conoscenza a una posizione di subalternità.
 
Come si lega la decolonialità alla donna?
«Il femminismo postcoloniale ha messo in luce come durante il colonialismo si sia costruito un oggetto donna-altra che era il frutto di una serie di fantasie, che si intrecciavano con la maniera in cui l’Europa guardava il cosiddetto Oriente: per esempio la donna araba vista come lasciva, l'immaginario dell’harem o l’iper sessualizzazione delle donne nere. Gli studi postcoloniali con un’ottica di genere evidenziavano che questa immagine di inferiorità del soggetto donna, veniva riportata in generale agli abitanti dei Paesi colonizzati, dei Paesi altri».
 
Perché?
«I coloni di fatto erano uomini e non solo bianchi, quindi il discorso sulle esplorazioni riprendeva un immaginario sessualizzato e che riguardava il rapporto uomo/donna eterosessuali. Per questo si usavano espressioni come “esplorare la foresta vergine” o “penetrare la foresta vergine”: salta all’occhio che si tratta di un gergo in cui gli spazi altri di fatto nutrono un immaginario su un soggetto femminile che passa dall’istintivo al selvaggio; l’idea della selvaggità che di fatto riprende il binomio natura-cultura. Questa divisione porta il soggetto donna dalla parte della natura e il soggetto uomo dalla parte della cultura e quindi della razionalità. Questo è stato messo in luce dagli studi postcoloniali in un'ottica di genere».
 
Era il dominio maschile sulla donna?
«Il soggetto donna per come è stato utilizzato e interpretato può di fatto portare avanti una dominazione bianca maschile su tutto il mondo. Questo è il male gaze, lo sguardo maschile eteropatriarcale ed eterosessista: non è un problema di uomini come soggetti, ma di un punto di vista che viene forgiato e che parte dalla base di un soggetto che crea e che si inserisce in un sistema eteropatriarcale e sessista».
 
Cosa evidenzia il pensiero decoloniale?
«Mette in luce che in realtà tutto il sistema non è stato creato nel colonialismo dell’800 ma è cominciato nel 1492 con la conquista dell’America. Il problema allora non è il colonialismo e la decolonizzazione come momento storico di indipendenza del Paese: il problema è quella che chiamano colonialità, il fatto che dal 1942 si è creato un sistema mondo basato sul colonialismo, la conquista di quei territori, il capitalismo: sappiamo che il sistema capitalista inizia a prodursi e diventa forte a partire da quei momenti fino ad oggi. Un sistema che ha il colonialismo, il capitalismo e la violenza come base intrinseca, visto che il processo di conquista non può essere fatto senza una violenza e un genocidio e neanche senza l’epistemicidio (la distruzione che il colonialismo europeo ha fatto dei saperi propri dei popoli, ndr.)».
 
Si elimina il sapere, la cultura ‘altra’?
«Non vengono uccise solo le persone ma anche i loro saperi, uccise le maniere di vedere il mondo. E tutto viene relegato alla sfera della tradizione, dell’artigianato, della credenza… Mentre solo l’Occidente che conquista è portatore della scienza e del vero sapere. A questi elementi si aggiunge il razzismo, che diventa una scienza nell’800 con la nascita dell’antropologia e etnografia, scienze che studiano le comunità locali. Distinguere tra esseri inferiori e esseri superiori diventa una scienza, viene dimostrato attraverso delle regole scientifiche stabilite da quelli che si definiscono scienziati: si crea un evidente conflitto di interessi».
 
Si può parlare di femminismo postcoloniale?
«Gli studi decoloniali, come anche il femminismo postcoloniale, hanno messo in luce come non si possa parlare di donna come soggetto universale».
 
Cosa ha fatto il transfemminismo?
«Ha evidenzato come il soggetto donna non possa essere nemmeno accomunato da una questione biologica. Con l’approccio queer si è messa in discussione l’idea che il genere fosse la costruzione sociale tra femminile e maschile e che poi ci fosse l’essere uomo o donna come biologico. E ha anche messo l’accento sulle donne trans: l'esperienza della femminilità ha tante sfaccettature diverse e condizioni».
 
Da cosa nasce il suo saggio?
«Dal bisogno di rispondere al senso di frustrazione che tanti di noi hanno quando dicono: “Non cambierà mai niente”. Invece si possono fare delle cose, se si cambia il punto di vista e l’aspettativa. Il mondo si può modificare partendo dal cambiamento che puoi cercare di fare su te stessa e sugli spazi che tocchi direttamente».
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