Paolo Pombeni
Paolo Pombeni

Realtà virtuale/ La socialità ridotta nel mondo digitale

di Paolo Pombeni
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Martedì 18 Gennaio 2022, 00:18

Nel suo messaggio di fine anno il presidente Mattarella, citando la lettera del professore di filosofia di Ragusa drammaticamente perito nel crollo di una palazzina, ha invitato i giovani a cercare di mordere la vita. L’espressione è forte, evocativa, ricca di pathos, ma a fronte di quel che vediamo succedere ci si chiede se davvero la gioventù di questo nostro confuso tempo sia nelle condizioni e abbia voglia di accogliere quell’invito.
Più di quanto non realizziamo, vediamo intorno una voglia crescente di fuga dalla realtà nel tentativo per molti di crearsi degli universi personali, privi di vita reale in cui rifugiarsi per condurre in qualche modo una esistenza … fuori dal mondo. Il fenomeno riguarda i giovani, ma dobbiamo tenere presente che si tratta di una fase della vita che oggi si è molto dilatata: gli psicologi parlano spesso di adolescenze e giovinezze che arrivano a sfiorare i quarant’anni.

Lo sviluppo delle tecnologie informatiche ha certamente favorito quelli che una volta venivano chiamati “viaggi in una stanza” perché riguardavano l’isolamento di soggetti che sfruttando la propria fantasia e le suggestioni letterarie pensavano di fruire senza muoversi di esperienze che in realtà li rinchiudevano nella loro solitudine. Oggi è possibile quasi rendere “oggettiva” la propria fuga in altre dimensioni. 
Lo schermo del computer ci dispensa dall’immaginare perché ci fa “vedere fisicamente” ciò verso cui tende il nostro desiderio di evasione. Di più: ci consente anche di avere rapporti di presunto scambio con questi mondi, perché possiamo inviare e ricevere messaggi, interagire in qualche misura con altri che come noi stanno visitando quelle terre.

C’è persino il fenomeno estremo delle maschere virtuali, quegli aggeggi che uno si mette davanti agli occhi e che gli fanno credere di essere altrove, di “visitare” effettivamente altre realtà, da quelle ambientali e geografiche a quelle documentarie. Si pensi alle visite virtuali ai musei, che certo consentono dei rapporti con gli oggetti che nell’esperienza di una visita concreta non sarebbero possibili: ingrandimenti, zoom su particolari, fruizioni senza il fastidio di condividere con altri visitatori. Certo ci sono anche vantaggi pratici: possiamo muoverci senza fatica e sostanzialmente senza costi se non minimi, raggiungere mete e fare esperienze che altrimenti magari non potremmo permetterci.

C’è una spinta crescente a produrre quelle che potremmo anche chiamare forme di a-socialità. Lo si è già rilevato per esempio nelle esperienze della didattica a distanza (Dad) che non sono semplicemente la fruizione di una lezione “registrata”, ma il farlo chiusi nella propria stanza, senza obbligo per esempio di rispondere a qualche regola posta dalla comunità circa abbigliamento, comportamento o cose simili. Si spinge insomma verso l’individualismo di singolarità che cancella l’individualismo di appartenenza: il singolo è una monade, non il componente di una generalità che gli dà delle caratteristiche (gli studenti, la classe, i membri di una città, ecc.) in cui si riconosce e che lo plasma più di quel che si possa immaginare.
Fenomenologie di questo tipo si stanno diffondendo.

Pensiamo allo smart working che taglia fuori il lavoratore dall’interazione con la sua comunità, diremmo proprio dal suo mondo, piccolo o meno piccolo che sia. Temi come la vecchia solidarietà di classe andranno ad affievolirsi se non a sparire, e vanificherà la consapevolezza che ogni prodotto non è mai frutto solo di una individualità sganciata da tutto, ma di una interazione con sistemi relazionali. Basterà ricordare che anche l’individuo che fa una scoperta in contrasto con quanto sostenuto dalla sua comunità di riferimento, caso niente affatto raro nella ricerca scientifica, ma non solo, arriva a quel risultato perché è in dialettica e competizione col suo contesto, non perché gli si accendano chissà quali lampadine a prescindere da ogni relazione col prossimo.

Se teniamo presente questa realtà riusciamo a capire perché oggi non solo la partecipazione, ma il coinvolgimento nella politica, cioè nella dimensione decisionale e creativa dell’agire pubblico, siano in crisi. Lanciare proclami e persino insulti nel web dai più vari dispositivi non è sentirsi partecipi di una storia comune e agire in essa, ma solo navigare nel mondo delle proprie fantasie in cui si immagina sé stessi, ma anche i propri nemici come altro da quello che sono. Si ricordi che spesso gli odiatori da tastiera quando vengono smascherati si rivelano niente affatto consapevoli di quello che hanno detto lanciandolo sulle onde digitali: non attaccano persone fisiche, ma immagini che hanno trovato in TV, nei social, nei media, e loro stessi non sono persone di una vita reale, ma figuranti virtuali che recitano a vanvera una parte essenzialmente di fronte a se stessi.

Certamente esistono ancora delle realtà che mantengono il gusto del mordere la vita, ma anche qui, accanto al sopravvivere di individui e comunità che perpetuano l’esperienza della condivisione e partecipazione davvero al “mondo”, vediamo sorgere fenomeni di chiusure in piccoli mondi autoreferenziali in cui in fondo ci si rifugia per sentirsi parte di un “frammento” che si evita però di connettere con un contesto più vasto nel quale ci sono anche cose che non piacciono e che si fa fatica ad inquadrare.
Sono aspetti della crisi che il nostro contesto sta sperimentando e su cui sarebbe bene attivare l’attenzione: senza vita sociale non c’è politica né progresso. Non siamo ancora al capolinea, ma se non riorganizziamo il nostro viaggio continueremo a marciare in quella direzione.

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