Paolo Pombeni
Paolo Pombeni

L’astensionismo che favorisce le corporazioni

di Paolo Pombeni
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Venerdì 27 Ottobre 2023, 23:57

I dati non potrebbero essere più chiari: in Italia nelle elezioni politiche del 1976 votò il 92,4% degli aventi diritto mentre nel 2022 si erano ridotti al 63,8%. Non è andata meglio a livello di elezioni regionali quest’anno: in Lombardia ha votato il 41,7%, nel Lazio il 45,4%. Nelle elezioni in Trentino domenica scorsa ha votato il 58,3% con un calo di 5,6 punti rispetto alle precedenti elezioni. Nelle suppletive per il seggio di Monza resosi vacante per la scomparsa di Berlusconi ha votato il 19,23%, una percentuale da brivido per la tenuta di un sistema democratico basato sulla partecipazione popolare.


Sarebbe sbagliato affermare che non ci sia attenzione al problema: se ne parla, si è cercato di studiarlo, si sono fatte ipotesi per contenerlo. Tutte iniziative meritorie a partire da un libro bianco prodotto l’anno scorso da una commissione di studio istituita a Palazzo Chigi presso il Dipartimento per le Riforme Istituzionali. Le spiegazioni del fenomeno sono in fondo abbastanza intuitive. C’è una quota di astensionismo involontario dato dal fatto che un certo numero di elettori sono lontani dai loro seggi per motivi vari (lavoro, studio, turismo, ecc.) e non li mettono a rischio per rientrare e votare. È il frutto di una società a mobilità alta e facile, in cui ben pochi approfittano dell’occasione dell’appuntamento con le urne per rientrare a vedere i loro cari: era roba di un’altra epoca quando esistevano anche sconti significativi sui mezzi di trasporto per agevolare gli spostamenti.


A questo in alcuni paesi si è ovviato ammettendo il voto postale, ma da noi le obiezioni a questa pratica sono ancora fortissime. Non è ovviamente tutto qui. Al di là di una quota di popolazione che non vota perché culturalmente non preparata a sentirsi parte del processo politico (è lo zoccolo duro dell’astensionismo che è sempre esistito), è cresciuta molto la componente di elettori che hanno perso fiducia nei partiti e nelle istituzioni. In fondo pensano che chiunque vinca non cambierà poi chissà cosa, perché tanto il sistema quanto il contesto vengono giudicati sostanzialmente immodificabili. C’è anche una quota non grande di astensionismo per esprimere protesta verso il proprio partito diciamo così tradizionale. I partiti che perdono si illudono che questa sia la componente determinante, ma non è così. Oggi non ci sono praticamente più fidelizzazioni assolute per cui discostarsi da esse sia considerato apostasia: chi si sente tradito dal partito che ha sostenuto in passato non ha alcuna difficoltà, se vuole, a trovare sempre nella propria area un altro partito che sia più radicale o più moderato a seconda delle critiche che hanno mosso il suo distacco (tutte le aree, destra, sinistra, centro sono affollate di sigle e di alternative).


In definitiva la spiegazione più plausibile per la crescita continua dell’astensionismo è che una quota ormai ampia di cittadini non ha fiducia nel “peso” che può avere la sua partecipazione allo snodo centrale di ogni sistema democratico, cioè una libera competizione elettorale. Di conseguenza non solo andare a votare non è più considerato un dovere civico, ma è qualcosa che non merita quel piccolo sacrificio del proprio tempo che richiede.
I partiti sono preoccupati dell’astensionismo? A parole abbastanza.

Abbiamo l’impressione che lo facciano sempre meno, salvo trovare in esso quando perdono nelle competizioni la comoda via per sostenere che in realtà i vincitori rappresentano una minoranza nel paese attribuendo al non voto la presunzione che si tratti comunque di un voto contro chi ha prevalso. In realtà la contrazione della base elettorale consente invece una revisione dell’obbligo della rappresentanza generale che un tempo gravava sulle forze politiche.


Sembrerà impossibile che sia così, ma se guardiamo a fondo nel panorama politico che va consolidandosi vi vedremo affermarsi alcuni fenomeni che sono facilitati, a volte in misura notevole, dal restringimento della partecipazione elettorale. Si assiste alla crescita di rappresentanze organizzate della crescente segmentazione sociale: non ci sono più le “classi” tradizionali (borghesia, proletariato, ecc.), ci sono corporazioni di vario tipo (economico, sociale, territoriale) che si pongono in posizione negoziale coi partiti. Anzi, mentre un tempo questo dava vita al “correntismo” all’interno dei maggiori, da qualche tempo incrementa la frammentazione della rappresentanza in un continuo nascere di partiti, sigle, associazioni e quant’altro. Così le forze politiche competono per tenere nel proprio recinto il maggior numero possibile di queste corporazioni, vuoi dando loro direttamente spazio all’interno di esse, vuoi aggregandone le varie sigle in coalizioni o “campi” più o meno larghi.


Non occorre raffinatezza di analisi per capire che il crescere nelle componenti politiche di questo approccio “federativo” porta a difficoltà di confronto per ricercare sintesi e spinge invece ad approcci di negoziazione in cui io do una cosa te e tu ne dai una a me (e al diavolo l’interesse generale). Chi si sente fuori da questa giungla corporativa, o marginale in essa, viene spinto ad astenersi dalla partecipazione ad un contesto in cui per lui non ci sono che quei “residui” che possono ancora essere distribuiti prescindendo dal gioco delle corporazioni: qualcosa che in fondo gli potrebbe venir dato comunque a prescindere da chi terrà le fila della distribuzione di questo genere di risorse di routine.

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