Paolo Pombeni
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Nodo “autonomia”/Le riforme e il colpo di mano da evitare

di Paolo Pombeni
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Mercoledì 17 Maggio 2023, 23:49 - Ultimo aggiornamento: 18 Maggio, 22:19

Non stessimo parlando di cose serie, potremmo cavarcela col dire che è la solita storia: Calderoli cerca, a pro della Lega, la mossa vincente che ne rilanci la presa sul Nord, dove, Brescia insegna, c’è più di un problema. Questa volta la questione delicata è che non si tratta, come fu nel caso del suo famoso “Porcellum”, di una trovata per favorire la sua parte, la quale può passare senza che i cittadini e lo stesso “sistema” capiscano dove si va parare. La cosiddetta autonomia differenziata si delinea sempre più come un meccanismo per favorire lo sviluppo (e qualche forma di secessione soft) di chi già sta bene lasciando nelle difficoltà, forse anche aumentandole, coloro che stanno peggio.


Il tema non è infatti una ardita e astratta declinazione del principio della sussidiarietà, cioè dar modo a chi è ritenuto in grado di gestire bene degli interventi pubblici, di farlo sganciandosi dal controllo di un centralismo che sarebbe solo burocrazia che ostacola le altrui capacità d’azione. Questa narrativa si regge su fantasie che dovrebbero anche essere verificate. Tanto per dire, nel pieno del contrasto alla pandemia la Lombardia, candidata d’avanguardia a nuovi livelli di autonomia, non è che abbia dato splendidi esempi di efficienza, mentre il Lazio, che in quell’ottica non viene considerato un campione, ha lavorato molto meglio. 

Ma al di là di questo, a rendere confuso il tentativo di colpo di mano del ministro Calderoli e del suo partito, che per riuscire nell’impresa prova a ricattare la maggioranza sul tema delle riforme costituzionali (smul stant aut simul cadent, si sarebbe detto una volta), è la sottovalutazione (eufemismo) delle ricadute sulla finanza pubblica che deriverebbero dall’applicazione dell’autonomia differenziata.


Il ministro è abile. Per evitare l’argomento avverso che sottolinea le diseguaglianze nelle prestazioni in capo alle regioni ha messo in piedi una commissione molto qualificata per definire quali siano i livelli essenziali di prestazione (gli ormai famosi Lep) che devono essere garantiti ad ogni cittadino a prescindere dalla sua collocazione geografica. Suona naturalmente curioso che Calderoli non sembri interessato ai risultati a cui giungerà questa commissione per tarare su di essi l’impianto legislativo del nuovo sistema di autonomie regionali. Il fatto è che a lui e al suo partito interessa intestarsi la nuova legge (ordinaria, dunque non soggetta all’iter lento e complesso di quelle costituzionali) per esibirla come trofeo nella raccolta di voti per le prossime elezioni europee ora fissate al 9 giugno 2024.


Non c’è molto tempo per farlo, perché non basta far passare eventualmente la legge (e già questo non sarà facile perché deve attendersi ostruzionismo della minoranza e perplessità nelle file della maggioranza), è necessario avere anche il tempo per propagandarla efficacemente, visto che la nuova normativa è popolare presso le burocrazie di partito che a livello regionale possono sfruttarla, ma non suscita entusiasmi nella gente e anzi più di una perplessità in molti gruppi sociali dirigenti (gli industriali per esempio hanno espresso uno scarso gradimento per questa avventura).


A preoccupare tutte le persone assennate, di sinistra, centro o destra che siano, è il combinarsi del costo assai rilevante che peserebbe sulla finanza pubblica per sostenere i Lep nelle regioni che non sono in grado di produrre entrate fiscali tali da renderli operanti, nonché dell’inevitabile montare di tensioni sociali quando una parte del paese si troverà platealmente discriminata dal momento che le risorse per l’equalizzazione dei Lep su tutto il territorio non ci sono e non ci saranno visto che dovremo contenere il deficit pubblico su cui graveranno fra qualche anno anche gli impegni per rifondere i prestiti ottenuti per il Pnrr. È piuttosto strano che Calderoli e soci si siano risentiti perché un documento del Servizio di Bilancio del Senato abbia svelato, come il ragazzino della nota fiaba di Andersen, la banale verità che il “re” (la legge di riforma sull’autonomia differenziata) è “nudo”, poiché i panni sontuosi con cui è stato rivestito sono immaginari.

Si è provato a metterci una pezza sostenendo che quel documento era una bozza, facendolo ritirare e poi riammettendolo, ma intanto è tutt’ora in circolazione e chiunque vuole farsi un’idea precisa di cosa bolle nella pentola delle riforme e dei regolamenti non ha che da leggerlo.

Ora è abbastanza evidente che alla maggioranza di governo non conviene imbarcarsi in una riforma che scuote il sistema di connessione della nazione e che se passasse fatalmente finirebbe sotto la tagliola di un referendum abrogativo polarizzante il quale metterebbe in difficoltà il lavoro del governo su tanti fronti molto più importanti per costruire il consolidamento del consenso di cui gode (e limitiamoci a questo ragionamento utilitaristico, anche se si potrebbe ricordare che ci sono riforme più nodali su cui si potrebbe ben aprire un confronto costruttivo). 


Con tutti i problemi che l’Italia ha per superare una serie di stalli che si sono accumulati, con tutte le opportunità che si possono creare per uno sviluppo bilanciato che metta a frutto le potenzialità del paese, ha senso spingere per una riforma-bandierina che (forse) può portare ad un solo partito qualche punto in più nei sondaggi e poi nelle urne? Naturalmente è solo un interrogativo retorico, perché la risposta è facilmente desumibile viaggiando fra la gente e parlando con essa. 

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