Paolo Pombeni
Paolo Pombeni

Nuovi modelli/ L’evoluzione digitale e la giustizia sempre lenta

di Paolo Pombeni
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Mercoledì 4 Gennaio 2023, 00:07

La pronuncia del presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, a favore di un rapporto di lavoro che vada valutato per il conseguimento di obiettivi anziché in termini di paga oraria è di quelle che fanno discutere, ma coglie un problema nell’evoluzione dei rapporti di impiego. Nel momento in cui con la digitalizzazione, con lo smart working, con l’allentamento del legame del lavoratore con un determinato luogo di produzione cambia il quadro tradizionale, o meglio quello che si era imposto negli ultimi secoli, riconsiderare anche questo aspetto diventa opportuno.

Ovviamente non sarebbe possibile, né sarebbe bene assolutizzare ed uniformare ogni tipo di rapporto di impiego: ce ne sono non pochi che non si prestano a rientrare nelle coordinate di un lavoro per obiettivi, ma ce ne sono molti che non solo possono stare in questa dimensione, ma che anzi è bene far evolvere in quella direzione. È necessaria una rivoluzione culturale, una volontà di adeguarsi ad un nuovo modo di produrre, altrimenti non si raggiungerà nessun obiettivo di rilievo, però è bene sapere che in molti settori ci si muoverà in quella direzione. Per spiegare il necessario cambio di mentalità che implica l’evoluzione di cui stiamo parlando possiamo scegliere come esempio il settore della giustizia. Qui la digitalizzazione del processo ha tagliato i tempi di molte incombenze legate al rapporto fra burocrazia giudiziaria (le cancellerie) e gli avvocati (di conseguenza i cittadini che percorrono i sentieri del rapporto con la giurisdizione). Il fatto che gli atti si possano far circolare telematicamente, senza bisogno di copie vidimate, di lunghe file per acquisirle, di procedure varie per l’accesso ai documenti, ha disincagliato un collo di bottiglia di cui tutti si lamentavano. Eppure il tempo di conclusione dei processi non si è ridotto in proporzione ai benefici introdotti da questa tecnologia.

Perché? Secondo molti osservatori perché il tempo che impiegano molti magistrati, non tutti ovviamente, per scrivere i loro atti e in specie le sentenze non si è velocizzato. Chi giudica rimane arbitro dei tempi che ritiene necessari per assolvere le sue funzioni. Per lui l’obiettivo (rendere la giustizia più veloce come è richiesto non solo dai ritmi della vita attuale, ma anche per esempio dal Pnrr) non assume un valore discriminante.
Se dicessimo che un magistrato non può essere “stressato” obbligandolo a rispettare dei tempi fissati in astratto per adempiere al suo obiettivo di “rendere giustizia” ai cittadini troveremmo il plauso di tutti quanti temono una robotizzazione della produzione giurisdizionale, cosa che ovviamente sarebbe in contrasto con la necessità di pronunce eque e meditate.

Tuttavia è sotto gli occhi degli osservatori che abbiamo un sistema giudiziario in cui i tempi di produzione delle decisioni sono i più vari: ci sono sedi e magistrati che lavorano più che con solerzia, altri contesti in cui per così dire ce la si prende comoda, alcuni in cui verrebbe voglia di dire che si batte la fiacca.

Che lezione generale si deve trarre da questi esempi? Che l’adeguamento alle possibilità di ridurre i tempi morti e senza significato offerte dalle nuove tecnologie non riesce ad esplicare tutti i suoi effetti benefici perché si scontra con la mancanza di disponibilità ad adeguare il proprio modo di lavorare al nuovo contesto. Come dicevamo, ogni cambiamento dei modi di lavorare e produrre implica un adeguamento culturale, l’acquisizione di una nuova mentalità. Si è spesso disquisito in passato sulla diversità fra il lavoro, in qualche misura almeno, creativo e quello di routine (senza entrare nell’estremo del lavoro banalmente ripetitivo). 

Oggi si cerca dovunque, nei limiti del possibile, di inserire elementi di creatività in ogni lavoro, di abolire l’alienazione dell’assolvere un compito che in sé è di scarso significato perché lo avrà solo in ordine alla produzione di un risultato finale che è estraneo a quanto fa il singolo lavoratore. Ora un sistema che acquisisca l’ottica dell’impegnarsi per obiettivi ovvierebbe a questo stato di cose: il raggiungimento di un risultato vuol dire conquistare un significato per il proprio impegno e fatica e ciò dovrebbe essere sufficiente a gratificare il lavoratore quale che sia la sua posizione e il suo livello. Però nell’obiettivo da raggiungere sta anche il fattore tempo, perché un giusto impiego di esso è una forma di rispetto verso il contenuto di quanto viene prodotto e verso la responsabilità che ci si assume nei confronti sia di coloro che sono coinvolti in quel processo produttivo, sia di quanti trarranno utilità e vantaggio dal raggiungimento degli obiettivi previsti.

Può sembrare un discorso molto astratto, mentre invece è una frontiera dell’evoluzione del nostro modo di rapportarci alle esigenze della società e del mondo in cui viviamo, cioè di dare al lavoro un contenuto di soddisfazione. Non è un qualcosa da riservare solo a certe mansioni, ma una esigenza generale. Richiede, lo ribadiamo ancora una volta, rivoluzione culturale e cambio di mentalità, in assenza dei quali l’impiego anche massiccio di nuove tecnologie non supererà i colli di bottiglia che stanno al termine di ogni processo produttivo. Si tratta però di una esigenza importante nel momento in cui, giustamente, vogliamo liberare dove possibile il lavoro dal rapporto con forzature, spostamenti, consumo di tempo non necessario. Bisogna però che questo si risolva in un beneficio per tutto il sistema, cioè per tutti coloro che dipendono dai risultati che si possono raggiungere. L’esempio della pubblica amministrazione, di cui l’esercizio della giustizia è parte per quanto molto qualificata, è facilmente comprensibile, ma il ragionamento ha una portata generale che, ben considerata e senza indulgere a semplificazioni ed estremismi, costituisce una delle sfide del passaggio d’epoca che stiamo vivendo.

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