Paolo Pombeni
Paolo Pombeni

Nuovi equilibri/ Verso la fine della seconda Repubblica

di Paolo Pombeni
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Lunedì 26 Settembre 2022, 00:11 - Ultimo aggiornamento: 22:46

Come si può leggere l’esito della grande disfida elettorale, presentata da alcuni come analoga a quella famosa del 1948, se dobbiamo farlo a caldo, avendo in mano i dati degli exit poll, strumenti in passato con dei problemi, ma sempre più raffinati da tecnologie statistiche che hanno tenuto conto degli errori passati?

Le chiavi interpretative sono molteplici, a seconda dell’angolo prospettico da cui si esaminano i dati. Se partiamo dalla domanda più banale, quella su chi ha vinto e chi ha perso, possiamo osservare che, al netto di previsioni che danno “forchette” di 3 o 4 punti nell’attribuire i risultati, c’è un vincitore accertato che era anche quello atteso. L’ottima performance attribuita al partito di Giorgia Meloni che dovrebbe staccarsi dal suo immediato inseguitore almeno di circa 5 punti e arrivare a rappresentare un quarto e forse più dell’elettorato. A limitare il successo di una leader che ha portato il suo partito da una posizione più che marginale ad essere indubitabilmente il partito più votato ci potrebbe essere il fatto che i suoi alleati sembrano andare maluccio e questo indebolisce la sua vittoria perché è probabile che non la possa sfruttare adeguatamente con compagni di coalizione che, proprio perché non sono andati bene, saranno tentati dal metterle i bastoni fra le ruote. Ma che possano arrivare a mettere in discussione la sua candidatura alla guida del governo è altamente improbabile.

Conte non ha stravinto, sebbene possa vantare un risultato che due mesi fa ben pochi si aspettavano. Certo aver contenuto le perdite rispetto al 2018 più o meno alla metà di quelle percentuali e soprattutto poter contare sull’inconsistenza della sfida che gli veniva dagli scissionisti di Di Maio è per lui un bel risultato. Ma anche in questo caso il problema è che non sa come impiegare questo successo, perché anche a lui manca la prospettiva di mettere in piedi una coalizione che possa offrirsi a Mattarella come possibile alternativa al blocco del centrodestra (che peraltro ha percentuali non sfidabili), né potrà fare politica esigendo quella marea di bonus e interventi che ha promesso e che, verosimilmente, gli hanno portato molti voti.

Da un punto di vista opposto non ha tenuto abbastanza il Pd che deve accontentarsi di essere il secondo partito, ma che sembra destinato a non scendere sotto la soglia minima del risultato elettorale della segreteria Renzi. Però anche in questo caso il suo “campetto largo” si è rivelato poca cosa. A stare all’aritmetica post elettorale gli sarebbe convenuto tenersi la coalizione con Calenda aggiungendovi Renzi e costringere a miti pretese gli alleati dell’estrema sinistra. Ma questo è un problema che nasce all’interno del suo partito e che dovrà per forza di cose chiarire, capendo che non si può tenere insieme una tradizione riformista-migliorista con una che non riesce a staccarsi dal massimalismo dell’inseguire il mito del “dire qualcosa di sinistra”.

La Lega esce molto ridimensionata, mentre sembra che Forza Italia abbia una mezza debacle, ma in questo come in altri casi non bastano le percentuali: bisogna vedere come sono stati spartiti i “posti sicuri” fra i tre partiti coalizzati (più il gruppetto di Lupi).

C’è la possibilità che grazie a quelle spartizioni fatte al buio i seggi parlamentari per ciascuno dei due siano in numero maggiore di quelli che verrebbero da una di tipo proporzionale. E ciò lascerà ad entrambi i partiti lo spazio e le risorse per poter continuare a pesare nella fase politica che si aprirà adesso.

Il duo Calenda-Renzi è andato bene, ma anche in questo caso senza fare il botto. Era difficile essendo la somma di due partiti molto “personali”, soprattutto nel caso di Azione non ben fornita di classe dirigente in grado di allargare il richiamo verso una proposta che ha raccolto un indubbio largo interesse. Per andare avanti sarà necessario che i due dioscuri capiscano che non si costruisce radicamento politico puntando solo sulle personalità dei leader. Il reclutamento nella società, cosa che peraltro non fa più seriamente nessun partito, è un passaggio essenziale se non si vuol essere meteore.

Detto tutto questo ci sono considerazioni da fare su come impatteranno i risultati di questa tornata elettorale. La prima riguarda come le varie classi dirigenti economiche e politico-sociali guarderanno il panorama che è emerso. Esso mostra definitivamente il tramonto del quadro politico che fu della cosiddetta seconda repubblica: niente bipolarismo moderati/progressisti, ma un contesto frammentato in cui tornano in scena le tradizionali fratture presenti nella nostra politica, quelle tra riformisti e massimalisti, entrambi presenti pur con diverse caratteristiche, sia nella destra che nella sinistra per di più dispersi in molte formazioni. Se questo significherà instabilità o nuove forme di stabilizzazione sarà l’interrogativo che pesa e, a seconda delle risposte che si daranno, quelle classi dirigenti inizieranno a muoversi di fatto contribuendo all’una o all’altra alternativa. Certo al momento è difficile non vedere la vittoria della destra, ma per stabilizzarla Meloni dovrà lavorare e non poco.

La seconda considerazione riguarda la necessità di andare oltre la mitizzazione delle percentuali, perché la politica sarà costruita, a partire dal ruolo del Quirinale, sulla distribuzione dei seggi. Non tanto per determinare a chi verrà affidato il compito di guidare il governo (ci vorrebbero fratture oggi non ipotizzabili perché l’incarico non andasse a Giorgia Meloni), ma per identificare che tipo di opposizione ci si potrà aspettare dalle forze che rimangono fuori della coalizione vincitrice, quale concorso esse potranno o non potranno offrire (dipenderà in parte da loro, in parte dalla maggioranza), e quanta tenuta potrà avere la soluzione per il governo che è uscita indicata dalla dinamica elettorale. E anche questo non è roba da poco.

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