Paolo Balduzzi
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Fusione nucleare/ La corsa nel futuro che l’Europa sta perdendo

di Paolo Balduzzi
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Mercoledì 14 Dicembre 2022, 00:08

Sessantacinque anni fa, all’inizio della primavera del 1957, e proprio a Roma, venivano firmati due dei più importanti Trattati istitutivi della Comunità europea. Quello della Comunità economica (Cee), il più famoso, ma anche quello della Comunità europea dell’energia atomica (Ceea) o, come è più comunemente nota, l’Euratom. Si trattava (anzi, ancora si tratta, perché il Trattato è attualmente in vigore), di un’organizzazione internazionale con lo scopo di coordinare i programmi di ricerca degli Stati membri relativi all’energia nucleare, nonché, ovviamente, di assicurare un uso pacifico della stessa. 

A pensarci oggi, si viene innanzitutto investiti da un profondo senso di orgoglio: sia perché quei Trattati furono firmati in Italia sia perché, tra i protagonisti di quella stagione di sviluppo, di pace, di ricostruzione e di visione del futuro, c’erano i nostri Alcide de Gasperi e Altiero Spinelli. D’altro canto, il secondo sentimento è quello dello stupore. Ci sarebbe infatti da chiedersi cosa se ne sia fatta l’Unione Europea, in particolare la Commissione che abita a Bruxelles, cui fa capo la direzione di Euratom, di un Trattato del genere. Perché la notizia che tutti sognavano e attendevano, ieri non è arrivata da uno dei laboratori del Vecchio Continente bensì da San Francisco, in California, Stati Uniti: grazie alla fusione nucleare il futuro di scenari nefasti che ci stavamo abituando ad accettare potrebbe essere cancellato.

Eppure, la missione del Trattato era chiara: sviluppare la ricerca e assicurare la diffusione delle conoscenze, agevolare gli investimenti e assicurare la realizzazione degli impianti fondamentali necessari allo sviluppo dell’energia nucleare, garantire il regolare ed equo approvvigionamento di tutti gli utilizzatori dell’Unione Europea, promuovere il progresso nell’utilizzazione pacifica dell’energia nucleare in collaborazione con i Paesi terzi e con le organizzazioni internazionali. Già, Paesi terzi e comunità internazionali. Perché un’impresa di questo tipo non può appartenere a un’azienda privata, a una nazione e nemmeno a un gruppo di Stati. È un’impresa del genere umano, da sviluppare nell’interesse di ogni creatura vivente di questo pianeta. E gli inviti a collaborare con gli Stati Uniti sono arrivati, negli anni passati, anche da voci di primo piano, come quella di Carlo Rubbia, premio Nobel per la fisica nel 1984 e oggi senatore a vita.

Gli accordi politici, si sa, richiedono coordinamento su risorse, tempi e visioni che non sempre posso essere raggiunti. Ma la questione economica è cruciale: dotarsi della tecnologia della fusione e svilupparla nei prossimi decenni significherà arrivare da leader sul mercato energetico internazionale. Non è più una sensazione, bensì una certezza, quella di essere in ritardo, e forse già pericolosamente esclusi, da questa corsa.

Naturalmente non ignoriamo che progressi sono stati compiuti anche in Europa grazie alla tecnologia alternativa tokamak, in virtù della quale un reattore fa scontrare isotopi di idrogeno che schiacciandosi si fondono generando elio ed energia termica. Né siamo certissimi che l’annuncio californiano sia del tutto genuino: troppe volte si è venduto un risultato che più tardi si è rivelato parziale. E tuttavia non v’è dubbio che un importante passo avanti negli Usa è stato compiuto. 

Dunque, al momento non possiamo che dolerci della modesta lungimiranza europea, senza però assolvere il nostro legislatore dalle sue colpe. La legge di Bilancio per l’attuale triennio, per esempio, varata dal governo Draghi allo scadere del 2021, aveva previsto fondi per il rinnovo della corsa spaziale e per portare il prossimo uomo e la prima donna, già nel 2024, sulla Luna. Un viaggio magnifico, un sogno che rilancia i racconti di fantascienza di Jules Verne su cui intere generazioni di giovani si sono formate. Ma ha ancora senso, oggi, la corsa allo spazio così come ci siamo abituati a pensarla? Certo, la vita è piena di rincorse all’inutilità: la conquista di un pianeta, per esempio; oppure, più alla portata di tutti, la conquista di una cima. 
Tuttavia, qualunque attività umana, utile o anche inutile che sia, non può prescindere dall’energia. Il futuro è certamente fatto di risparmio energetico, anche perché le scoperte annunciate ieri avranno un impatto sulla nostra vita solo nei prossimi decenni. Ma quella del risparmio energetico è una scelta etica, forse addirittura estetica, ma non certo così strategica. 

Al contrario, la sfida era, è e sempre sarà quella di trovare fonti di energia pulite, rinnovabili, e a basso impatto ambientale. La “decrescita felice” è un mito; anzi, è anche peggio: è la condanna alla povertà mondiale. L’accesso democratico all’energia è il diritto del futuro, nonché condizione necessaria allo sviluppo. Il nostro Paese e il nostro continente hanno finora preferito uno sviluppo più tradizionale, vuoi per il rischio di investimenti in progetti fortemente innovativi, vuoi per la difesa, più probabilmente, di interessi consolidati nel tempo. Eppure, dopo la crisi petrolifera degli anni ’70 del secolo scorso e quella recente del gas, dopo il ritorno dell’inflazione a due cifre e il rischio concreto di una stagflazione, quali altri argomenti possono servire ai legislatori europei per virare su progetti più coraggiosi? Nel 1957, una manciata di anni dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale e l’utilizzo bellico della bomba atomica, l’energia nucleare veniva considerata il principale mezzo per conseguire l’indipendenza energetica. Quando è successo che l’Unione Europea si è dimenticata della propria storia?

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