Paolo Balduzzi
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Obbiettivo crescita / Se il federalismo può aiutare anche il Mezzogiorno

di Paolo Balduzzi
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Sabato 19 Novembre 2022, 00:20

Il ministro per gli Affari regionali e le autonomie, Roberto Calderoli, ha presentato alle Regioni italiane la bozza di disegno di legge “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”. «Finalmente», secondo qualcuno, visto che il Ddl arriva con oltre vent’anni di ritardo rispetto all’approvazione del comma terzo dell’art. 116. Per molti altri, tuttavia e in poche parole, se ne poteva fare volentieri a meno. Proprio in questi giorni, Gianfranco Viesti, Andrea Bassi e Andrea Bulleri sul “Messaggero” hanno meritoriamente commentato, analizzato, spiegato e illustrato la proposta e i suoi, a volte evidenti, limiti. È inutile ripercorrerli nei dettagli: scarsa rilevanza data al Parlamento, poca attenzione ai livelli essenziali delle prestazioni, numero eccessivo di materie richieste, rischio di compromettere il meccanismo perequativo su cui si regge l’unità nazionale. 
L’impressione è quindi che la bozza presentata sia caratterizzata più da contenuti controversi che da una realistica volontà di riformare il federalismo italiano. Tuttavia, prima di derubricare l’iniziativa come inutile e dannosa o dimenticarsi definitivamente dell’autonomia differenziata, vale forse la pena di chiedersi se il famigerato comma terzo dell’art. 116 non fornisca uno strumento che, anziché dividere il Paese, serva a renderlo più unito e più forte. Ciò che non convince, al momento, non è infatti il principio in sé, bensì il contenuto elettorale del Ddl di attuazione: una strizzata d’occhio della Lega al suo elettorato tradizionale del nord, in particolare veneto e lombardo. Ma sbaglierebbero i presidenti di Regione del sud a opporsi a priori. Può il federalismo aiutare il sud? Potrebbe l’autonomia differenziata valorizzare le peculiarità del meridione? La risposta non è già stata scritta e, soprattutto, non è necessariamente negativa. 
A partire dagli anni ’90, il federalismo è stato presentato come la panacea di ogni male italico e, a poco a poco, la maggior parte dei partiti si è convinta che fosse davvero così. Promesse mantenute? Ovviamente, è difficile isolare il contributo specifico del federalismo all’evoluzione del Paese negli ultimi trent’anni. Tuttavia, pur non potendo speculare su rapporti di causalità, qualche correlazione la si può presentare. Per esempio, negli anni di implementazione delle prime politiche federaliste (il testo unico sugli enti locali, le imposte locali e regionali, la riforma costituzionale), i conti pubblici sono decisamente migliorati: è calato il deficit, è diminuita sensibilmente la spesa per interessi passivi ed è crollato anche il rapporto tra debito pubblico e pil, arrivando a raggiungere, poco prima della crisi del 2009, il valore simbolico del 100%. 
Certo, non va dimenticato il ruolo che ha avuto l’ingresso dell’Italia nell’Unione monetaria. E nemmeno vanno infilati sotto al tappeto gli scandali, gli abusi di potere, le disastrose gestioni dei bilanci sanitari. Inoltre, non è stata mantenuta la promessa della crescita: a partire proprio dagli anni ’90 del secolo scorso, il Paese ha sostanzialmente smesso di crescere. Ma la risposta a questi problemi potrebbe essere proprio l’eccessiva rigidità del disegno federalista. Perché, in altri termini, porre gli stessi vincoli a tutte le amministrazioni locali, tanto a quelle virtuose quanto a quelle deficitarie? L’autonomia differenziata potrebbe permettere di risolvere almeno alcuni dei problemi persistenti. A patto, sia chiaro, di non mettere mai in discussione l’unità generale e finanziaria del Paese. Né tantomeno il diritto di ogni cittadino di avere garantiti e tutelati i livelli minimi delle prestazioni che il Parlamento, anche in questo caso con imperdonabile ritardo, non si è ancora degnato di definire. 
Garantire l’unità nazionale significa anche essere disposti a fare passi indietro su alcune previsioni dell’attuale Costituzione. L’istruzione, tra tutte le materie interessate, merita una riflessione particolare. Non ci sarebbe nulla di male a lasciare alle Regioni la possibilità di sviluppare curricula di studi disegnati sulle esigenze del proprio territorio. Nel 2018, per esempio, durante il processo di contrattazione tra governo e Regioni sul federalismo differenziato, l’Emilia-Romagna era stata molto convincente quando giustificò la richiesta di maggiori competenze nel campo dell’istruzione superiore e professionale sulla base delle esigenze che i distretti di eccellenza dei motori, così diffusi in quel territorio, avanzavano alle scuole. P
Perché mai un’esperienza del genere non dovrebbe avere successo al sud, a sostegno dei tanti distretti di eccellenza che caratterizzano, per esempio, le produzioni alimentari, calzaturiere, di abbigliamento o anche di alta tecnologia? Diverso è il caso dell’istruzione dell’obbligo. Non ci si deve girare intorno: l’istruzione fa gola alle Regioni perché, dopo la sanità, è la materia che comporterebbe il maggior trasferimento di risorse. Di qui la domanda: l’autonomia serve a valorizzare il benessere dei propri cittadini e, di conseguenza, la crescita economica dell’intero Paese o è solo una scusa per accaparrarsi denaro per difendere e consolidare il proprio potere elettorale?
Sull’istruzione dell’obbligo non c’è alcuna necessità di differenziare i curricula.

Piuttosto, ci sarebbe la necessità di promuovere alternative eccellenti e totalmente “made in Italy”, per usare un’espressione cara al governo, come il metodo Montessori, ad oggi appannaggio nella maggior parte dei casi di costose scuole private e, tristemente, solo di poche scuole pubbliche. Quali altre competenze potrebbero venire valorizzate nelle regioni del sud? Subito il pensiero va al patrimonio artistico, ai beni culturali e a quelli ambientali, così unici in questi territori. E poi, pensandoci bene, anche la produzione di energia troverebbe terreno fertile e potrebbe creare ricchezza duratura nel meridione. La Capitale stessa ha ovvie peculiarità che meritano un trattamento autonomo e differenziato. Dove ci porterà dunque il dibattito sull’autonomia differenziata? Se le posizioni in campo resteranno quelle rigide di oggi, da nessuna parte. La speranza è che questo governo sia in grado di rappresentare e quindi di conciliare entrambe le esigenze: il rispetto delle peculiarità territoriali e quello dell’unità nazionale. E che sia dalla parte di chi non ha paura di sperimentare, di chi non ha paura di applicare la Costituzione, di chi non ha paura di intraprendere strade ancora non percorse. Con l’impegno, lungo quelle strade, di creare condizioni di crescita per tutto il Paese. 

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