La pesca italiana va a fondo. Dipendiamo dall’import

Uno dei pescherecci ormeggiati lungo il porto canale di Fiumicino
di Carlo Ottaviano
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Domenica 21 Aprile 2024, 08:00

Le statistiche dicono che questa è l’ultima settimana per mangiare pesce sicuramente pescato nei nostri mari. Ogni anno, tra metà e fine aprile, è come se si esaurisse lo stock ittico italiano che non copre neanche il 20% del consumo. Per il resto dipendiamo dall’estero da cui importiamo per un valore di circa 4 miliardi di euro, a fronte di esportazioni per meno di un decimo (390 milioni di euro). Del resto, il giro d’affari complessivo delle marinerie italiane si aggira intorno a 700 milioni di euro. Così, pur essendo i maggiori consumatori europei di pesce (25 kg pro capite l’anno, contro la media di 23), la situazione peggiora costantemente da 15 anni.

 

Le misure

«Nel 2030 – denuncia Paolo Tiozzo, vicepresidente di Fedagripesca Confcoooperative – oltre 9 prodotti ittici su 10 sulle tavole degli italiani potrebbe essere di importazione per mancanza di imprese e di lavoratori della pesca». La maggiore organizzazione del settore punta il dito contro i troppi divieti e le poche misure di sostegno alla pesca italiana che arrivano dall’Europa. Non mancano, però, le esperienze positive, tant’è che alcune “buone pratiche” di sostenibilità ambientale e di gestione delle risorse, saranno in mostra da martedì a giovedì al Seafood Expo Global di Barcellona, il più importante evento internazionale del comparto. Il padiglione a cura del ministero dell'Agricoltura e della sovranità alimentare ospiterà 85 imprese e otto Regioni (Calabria, Campania, Emilia-Romagna, Lazio, Marche, Sardegna, Toscana e Veneto). L’Italia arriva a Barcellona avendo già speso, come previsto, gran parte dei circa 500 milioni del programma finanziato dal Fondo Europeo per gli Affari Marittimi per il periodo 2021- 2027. L’obiettivo del piano è quello di rinnovare la marineria italiana così da fare crescere la produzione annua (262.641 tonnellate lo scorso anno, per il 50,4% generate dal comparto pesca e 49,6% dall’acquacoltura, secondo le rilevazioni del Masaf).

Intanto, non si arresta il declino del settore. «L’età media dei pescherecci italiani – ricorda Tiozzo – è di 31 anni, troppi.

Diminuisce il numero dei pescatori del 16% e si stenta a trovare nuovi lavoratori, soprattutto giovani». Oggi i pescherecci battenti bandiera italiana sono 11.807, pari al 16% circa della flotta europea. Forte calo anche dei giorni di pesca totali: -30%. I pescatori imbarcati sono circa 22 mila, di cui 19 mila a tempo pieno (10 anni fa erano più di 30 mila), mentre a terra operano oltre 100 mila addetti, per un totale che si aggira attorno ai 125 mila lavoratori (escluso l’indotto). La media degli imbarcati per unità da pesca è stabile nel tempo, con circa 2,12 occupati per motopeschereccio. Le catture calano al ritmo del 2% annuo, così come i redditi (-30% in dieci anni), mentre sale l’incidenza dei costi di produzione (soprattutto energetici) per alcuni tipi di pesca. Nello strascico è nell’ordine del 60/70%.

I CONTROLLI
«Sono dati allarmanti – sostiene Fedagripesca – che richiedono un cambio di rotta con interventi di sviluppo e rilancio. E invece ci troviamo a fare i conti con politiche europee tutte incentrate su sanzioni e controlli come avviene con il regolamento Controlli e il Piano di Azione». In questa situazione, la prima richiesta degli armatori è la proroga del regime quadro europeo di aiuti. «Chiediamo – afferma ancora Tiozzo – che il regime quadro attuale sia prorogato anche per i settori della pesca e dell'acquacoltura come previsto per il settore agricolo». Al momento la proposta in discussione alla Commissione europea li esclude. «Per avere un margine economico nell’attività di pesca – aggiunge – è necessario che il prezzo del gasolio resti entro livelli di sostenibilità ed i segnali di queste ultime settimane sono poco incoraggianti. Purtroppo, dall'inizio della guerra in Ucraina ad oggi il prezzo del gasolio ha superato la soglia di 1 euro e i venti di crisi che soffiano da oriente stanno riscaldando troppo i costi energetici. Così molte imprese decidono di lasciare i pescherecci fermi in porto e aspettano il piano di demolizione».

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