Coronavirus, il diggi della Viterbese racconta l'inferno di Bergamo. «Come una guerra, ma siamo tosti»

Il direttore generale della Viterbese Foresti con il sindaco Arena
di Marco Gobattoni
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Giovedì 9 Aprile 2020, 12:38 - Ultimo aggiornamento: 12:41
Il suo messaggio inviato giorni fa alla città di Viterbo ha scaldato il cuore a tanti: non solo ai tifosi della Viterbese di cui è il direttore generale da quasi tre anni. A Diego Foresti la Viterbese è entrata nel cuore e lui è entrato nel cuore dei tifosi: bergamasco doc, ha fatto del lavoro e della passione per quello che fa uno stile di vita. In queste settimane la sua Bergamo è flagellata dal coronavirus.

Foresti, lei abita a 300 metri dall'Ospedale Papa Giovanni: come sta affrontando Bergamo questa guerra?
«Con sofferenza ma con dignità. Qui è stata ed è tuttora in corso una vera e propria tragedia. Tutti abbiamo perso un parente, un amico o come capitato a qualche mio amico stretto un familiare. E' una cosa che ci ricorderemo a vita, ma i bergamaschi sono persone toste: quando abbassano la testa per un obiettivo, fino a quando non lo hanno raggiunto non la rialzano».

Il simbolo della speranza può essere l'ospedale da campo realizzato in dodici giorni con l'aiuto di tutti i bergamaschi...
«Esatto. Abito a 300 metri dal Papa Giovanni e a 500 dal nuovo ospedale. Quella è una storia che regala speranza a tutti. L'ho detto siamo un popolo sotto attacco, ma saremo pronti a rialzarci».

Bergamo vive un silenzio irreale, con la provincia che sta calcolando una quantità di morti mai vista.
«Prima di tornare a Bergamo sentivo mia moglie tre volte al giorno. Qui a Viterbo l'ho detto a molti: fermiamoci perchè la situazione è grave. Quando sono tornato in famiglia l'ho toccata con mano: il momento più difficile arriva la notte quando nel silenzio i camion militari vengono a prendere le bare per portarle via e i morti sono molti di più di quelli comunicati in maniera ufficiale».

Bergamo è più grande di Viterbo, ma alla fine ci si conosce tutti...
«A Viterbo mi trovo bene perchè somiglia alla mia città. Per questo è stata più dura: tutti hanno perso qualcuno di caro; un'intera generazione ci ha lasciato e il brutto è che sono morti da soli, senza nessuno vicino che potesse tenergli la mano».

Ha senso secondo lei parlare di calcio in questo momento?
«Prima o poi dovremo ripartire. Tutti però devono capire che ci sarà bisogno di qualche sacrificio. I presidenti stanno vivendo sulla propria pelle i problemi economici delle loro aziende. Ci vorrà una solidarietà di sistema perchè questo maledetto virus dovrà servire a cambiarci in meglio».

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