"Tutto in famiglia"/1.La madre
di Eugenio Raspi

"Tutto in famiglia"/1.La madre di Eugenio Raspi
di Eugenio Raspi
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Venerdì 10 Aprile 2020, 09:24 - Ultimo aggiornamento: 09:45

In esclusiva per "Il Messaggero" il primo racconto sulla pandemia dello scrittore Eugenio Raspi.

1/ La madre

Appena ha adocchiato il nome sul display, recuperando il cellulare dal comodino, Rita se lo aspettava che la telefonata non presagiva nulla di buono. Ieri in trattoria avevano fatto trenta coperti tra pranzo e cena, una miseria per un sabato. Non ci copro nemmeno le spese, si era lamentato il gran capo Antonio, il cui nome capeggiava a lettere alte un metro sull’insegna del locale ai margini del Raccordo autostradale. Era tutto paralizzato, il traffico scemato a un viavai discontinuo, diversi i trasportatori sulla tratta per Milano che avevano effettuato consegne nelle zone a rischio erano risultati positivi al test e messi in quarantena, in parecchi si rifiutavano di andarci mettendo in difficoltà le ditte di trasporto private di autisti e ordini. Lo stesso avveniva per gli agenti di commercio e fornitori che dal nord si spostavano in zona per le varie attività dell’area industriale, gli uffici acquisti delle ditte locali avevano iniziato a posticipare i loro appuntamenti a fine mese. Di turisti che transitavano nemmeno l’ombra, pochi in precedenza, si erano ormai azzerati. C’era da rimpiangersi gli assembramenti del periodo precedente alle festività natalizie, col movimento di merci e persone, il delirio all’interno della cucina, a darsi di gomito per stare dietro alle comande manipolando padelle e piastre roventi.

«Sì, certo, capisco, ma sì, ci sentiamo presto, allora aspetto la tua chiamata.»

Mentre ascoltava era scesa dal letto per aggirarsi nell’appartamento, fino a raggiungere il lavello e i fornelli, non potendosi sfogare a voce, aveva messo in moto le gambe. Rita chiude la conversazione pigiando l’icona rossa dello smartphone, si liscia d’impulso l’ustione al polso, guarita ma che le ha lasciato una macchia scura. Vai a quel paese, bisbiglia tra sé. Quando c’era da intascarsi i guadagni dei periodi di punta non li spartiva certo con lei, e alla prima difficoltà l’ha fatta fuori senza pensarci un istante.

«Chi era al telefono? Dal lavoro?», le chiede Dario, il marito, che ha abbandonato lenzuola e coperte e l’ha raggiunta in cucina.

«E chi vuoi chi sia. Certo. Mi ha scaricata. Dice che la gente ha paura, non esce più, non si fidano dei locali pubblici, i trasporti son fermi e di questo passo rischiano la chiusura, dovranno mandar via anche quelli fissi, figurarsi un aiuto cuoca come me, col contratto a chiamata. Poteva dirmelo ieri, di persona, ha preferito telefonarmi dopo avermi avvertito che ci saremmo sentiti questa mattina. Bel vigliacco. Si scusa, ma non può fare altrimenti, da oggi rimango a casa fino a nuovo ordine. “Speriamo che tutto passi in fretta, che trovino presto il vaccino”, mi ha detto il gran capo. Nel frattempo chi ci rimette sono io», dice Rita. «La mia vita è nelle mani di qualche cavia da laboratorio.»

«Vedi il lato positivo,» dice Dario.

«E quale sarebbe, illuminami.»

«Non dovremo spendere soldi per la babysitter e le varie incursioni di tua madre per guardare Nicole.»

«Bel risparmio, sulla mia pelle, e su mamma non dico niente ma ci siamo capiti.»

«Scherzavo.»

«Stai attento a te, tra poco bloccheranno pure gli spostamenti in treno.»

«In qualche modo in facoltà ci arrivo lo stesso», dice Dario, «al limite mi organizzo con gli altri pendolari, prenderemo la macchina, però prima magari facciamo il tampone a Proietti, che ha il mal di gola perenne, da novembre a marzo. Scherzi a parte, c’è da augurarsi che la chiusura delle università rimanga limitata a Lombardia e Veneto, altrimenti mi sa che rischio anch’io di rimanere col culo per terra.»

«Questo Coronavirus è una vera disgrazia», dice Rita. «Ma in ateneo che dicono, c’è davvero da aver paura?»

«Diciamo che tranquilli tranquilli non lo sono, l’attenzione è a mille. Non vorrei farti preoccupare, però li vedo agitati. Ora tutti vanno cercando i medici, si accorgono solo adesso che i numeri chiusi dei corsi universitari, col mancato ricambio generazionale, hanno creato una carenza di personale. Magari pretenderanno che anch’io indossi un camice e mi metta a curare la febbre.»

Dario è un impiegato della facoltà di medicina a Roma, in segreteria, il contratto in attesa di stabilizzazione dopo un decennio di sacrifici, una lotta quotidiana coi minuti per non perdere il treno e rischiare di rimanere inchiodato a Termini un’ora in più del necessario, a rigirarsi i pollici al binario 1est.

«Dai, non pensarci, è un periodo nero, ma vedrai che si risolve. Vorrà dire che oggi ci prepari un bel pranzetto della domenica, che ne dici: gnocchi al ragù, così fai felice Alessio.»

«A me è passata la fame.»

«Non fare così, su», Dario le va incontro e l’abbraccia. «Non mettere il broncio. Non con noi. Fra un po’ i bambini si svegliano, già ne sentono tante in televisione. Cerchiamo di restare allegri.»

«Beato tu che ci riesci.»

«Ti do un aiuto io, ti faccio da aiuto cuoco, ma dove lo trovi un altro meglio di me, guarda che fisico. Sono o no gagliardo per un quarantenne?»

«È inutile che la tiri in dentro, si vede bene che hai la pancia.»

«Vorrà dire che andrò più spesso a giocare a calcetto.»

«Tu provaci e chiedo la separazione, una volta a settimana basta e avanza.»

«Buongiorno», dice Nicole, il visino assonnato, si affaccia in cucina senza ciabatte, si strofina occhi e naso, i pantaloni del pigiama rialzati sulle gambe, l’elastico a metà polpaccio.

«Buongiorno amore», le dice Rita andandole incontro, «ma sei scalza, così ti ammali, non ci provare più.» Si abbassa e la prende in braccio. «Adesso sistemiamo le tazze mentre papà ti va a prendere le pantofole, e magari dà una svegliata a quel dormiglione di Alessio, che è in ritardo per la partita. Alle dieci e un quarto deve stare al campo, vero papà?», dice rivolgendosi a Dario, che controlla l’ora dall’orologio appeso sopra al frigorifero. «Se tuo fratello si sveglia, facciamo colazione tutti insieme. Intanto mamma prepara un bel latte e cioccolata alla sua bambina.»

«Grazie mammina», dice Nicole sfiorandole la guancia con le labbra.

«E questo tu lo chiami un bacio?», le dice Rita, allontanandola da sé per guardarla bene negli occhi mostrandole una faccia sconsolata.

Stavolta la figlia le dà un bacio con lo schiocco, non compenserà certo la perdita del lavoro, però almeno la riempie di gioia, anche se velata dall’apprensione per una malattia che pareva lontana, limitata a un altro continente, e invece sta prendendo il sopravvento su tutto il resto, compresa la sua vita.

1/Continua




 

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