Incendio alla Biondi di Ponte San Giovanni: per la nube tossica del 2019 in 6 vanno a processo. Cittadini e associazioni chiedono i danni

L'incendio alla Biondi
di Egle Priolo
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Sabato 28 Ottobre 2023, 08:39 - Ultimo aggiornamento: 08:45

PERUGIA - Traffico illecito di rifiuti, incendio colposo, falso ideologico e violazioni al codice dell'ambiente in danno alla salute pubblica. Queste le accuse per cui dal prossimo 6 dicembre dovranno difendersi sei imputati nel processo per il maxi incendio della Biondi recuperi esploso nella sede di Ponte San Giovanni il 10 marzo 2019. Ieri, infatti, il giudice Margherita Amodeo ha rinviato a giudizio, come richiesto dal pubblico ministero Laura Reale, Daniel Mazzotti, Bruno Biondi, Cristian Rastelli, Mirco Migliorelli, Silvio Pascolini e Paolo Amadei, più la stessa Biondi. Accusati – a vario titolo – per quella nube nera che si è alzata dalla sede della Biondi in via Bina e arrivata fino a Ponte Felcino, Ponte Valleceppi, Bosco e Ponte Pattoli: un fumo denso e scuro che ha appestato l'aria, costringendo circa 35mila residenti a chiudersi in casa per i rischi legati al respirare quell'aria tossica. Perché a bruciare sono stati rifiuti, «speciali pericolosi e non stoccati», come sottolineato nella richiesta di processo avanzata dalla procura, con l'incubo diossina che portò a chiudere quasi venti scuole e all'ordinanza che vietò di non consumare prodotti della terra per i rischi legati alle sostanze tossiche nell'aria.

Le accuse, come detto, sono a vario titolo e, per esempio, Mazzotti, Biondi, Migliorelli e Rastelli (rispettivamente legale rappresentante, responsabile tecnico degli impianti, dipendente responsabile operativo e dipendente della Biondi) dovranno difendersi – assistiti da Nicola Di Mario, Michele Nannarone, Gian Luca Pernazza, Luisa Liberatori e Francesco Falcinelli – dall'accusa di aver cagionato «per negligenza, imprudenza ed imperizia ovvero per non avere manutenuto l’impianto antincendio, che difatti non si attivava immediatamente all’inizio dell’evento incendiario, e per aver collocato (il Rastelli) il trituratore mobile di rifiuti nei pressi dei cumuli di rifiuti stoccati presso l’impianto di via Bina, mezzo da cui scaturiva l’innesco dell’incendio a causa di un cortocircuito elettrico prodottosi nel caricabatteria del telecomando del predetto macchinario» un incendio «di vaste proporzioni a seguito dell’incenerimento degli ingenti quantitativi di rifiuti urbani e speciali pericolosi e non stoccati». Rifiuti fuorilegge, come ha spiegato a gennaio direttamente il procuratore capo Raffaele Cantone, perché nell’atto di rinnovo del certificato di prevenzione incendi del 2018 ci sarebbero state dichiarazioni false. Ovvero, i quantitativi di rifiuti combustibili nel certificato erano indicati in 1.800 tonnellate mentre quelli «autorizzati e realmente gestiti» sarebbero stati «pari a 5.040 tonnellate di cui 2500 di plastica 2500 di carta e cartone e 40 di pneumatici». Una differenza che avrebbe permesso ai legali rappresentanti di omettere «di adeguare l’impianto anti incendio ai quantitativi reali di materiali/rifiuti combustibili gestiti». I successivi accertamenti investigativi avrebbero messo in evidenza ulteriori criticità circa il trattamento dei rifiuti dal 2016 al 2019: ma le accuse – contro cui le difese si sono opposte durante tutta l'udienza preliminare – ovviamente sono ancora tutte da dimostrare. La parola adesso passa al giudice Elena Mastrangeli, davanti alla quale si terrà il processo.
Processo in cui si sono stati già ammessi come parte civile CittadinanzAttiva Umbria, il Comitato Molini di Fortebraccio e il Coordinamento Rifiuti Zero, assistiti dagli avvocati Sara Pievaioli e Valeria Passeri, pronti a chiedere i danni: per dire, solo i Molini di Fortebraccio chiedono già un risarcimento di 50mila euro.

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