Sanremo 2020, il Festival monstre che sfora i tempi nel Paese che galleggia e non sceglie

Sanremo 2020, il Festival monstre che sfora i tempi nel Paese che galleggia e non sceglie
di Mario Ajello
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Lunedì 10 Febbraio 2020, 07:51 - Ultimo aggiornamento: 11:28

La bulimia sanremese è la nuova, ma vecchia, fotografia dell’Italia che prende tempo e lo spreca. O meglio lo usa non per decidere nell’interesse dei cittadini - che vogliono sapere subito chi ha vinto e non essere torturati fino alle 2,40 a colpi di pacchianerie sudamericane, mentre il verdetto si sapeva da un’ora - ma per salvare la pelle a una governance Rai in crisi.

Che s'è aggrappata allo share del festival per resistere-resistere-resistere. Hanno allungato il brodo per allargare gli ascolti. Hanno allargato gli ascolti, ma sugli spettatori medi Baudo, Fazio e Baglioni avevano fatto meglio, per consegnare una vittoria tarocca non a Diodato. Bensì a un sistema politico-televisivo che su Sanremo aveva fatto la scommessa della vita e ha puntato sul carattere onnivoro della rassegna, utile a stordire e a nascondere l'assenza di un disegno chiaro, se non quello - appunto - di durare. La notte finale, insieme alle altre, ha rappresentato l'immagine dell'Italia oggi.

Dove l'obiettivo non è l'eccellenza, la decisione non è il cuore di tutto anzi si può posticiparla e pasticciarla a dispetto della volontà popolare, ogni cosa si può fare perché si sono perse le gerarchie culturali - indimenticabile il duo cubano Gente de zona chiamato in soccorso nelle ore piccole e con Gozadera e Bailando trasforma l'Ariston in una sagra - e l'ossessiva inquadratura sui notabili e sui politici presenti diventa la corazza che serve a difendere un nulla pienissimo di tutto.

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L'OPERAZIONE
Missione compiuta!, si staranno dicendo a Viale Mazzini. Perché per ora si è riusciti vampirescamente a rianimarsi con il sangue degli ascolti purchessia. Senza calcolare però che lo sguardo corto del tirare a campare tra minutaggi e depistaggi (il non parlare di politica come vero messaggio politico rivolto alla nazione considerata stanca di politica, se non quella solita a bassa intensità e a zero produttività), non crea quel grande spettacolo che serve all'Italia.
Giocando con il paradosso, si può dire che lo show nazional-popolare per eccellenza s'è rivelato anti-patriottico. Perché non scegliere una linea culturale precisa, e assemblare alla rinfusa ciò che passa il convento, è un espediente per inchiodare il Paese in un'orgia d'intrattenimento al posto di modernizzarlo offrendo spunti nuovi, pensieri diversi (non basta la retorica del no alla violenza sulle donne ed è priva di forza l'ennesima rimasticatura del Benigni intellettuale stigmatizzato dal grande Renzo Arbore: «Primum ridere, deinde philosophari»), autentici stimoli di creatività come possono esserlo stati il Gabbani con lo scimmione dell'altra volta o il suono meticcio di Mahamood lo scorso anno.

LE MAJOR
E non è anti-patriottico favorire, come s'è deciso quest'anno, i soliti big protetti dalle grandi major, ghettizzando nella resuscitata sezione Giovani quelli che, come Mahmood l'anno scorso, potevano dare un brivido di futuro, impedendo loro di affermarsi con la vittoria piena nella gara principale? In questo ha agito da uomo di sistema Amadeus, per non smuovere le acque. L'Italia che resiste al rinnovamento generazionale, cioè al motore che manda avanti le nazioni, ha avuto così anche a Sanremo la sua conferma. Insieme a quella retorica della famiglia, con il tripudio in scena e nei dintorni di figli e di mamme, di mogli e altri congiunti, che anche quando non è familismo amorale non contiene una carica di progresso e un vento di emancipazione. Lo stesso vale per il traffico di telecamere, zoomma di qua, zoomma di là, che inquadrano il dirigentone, poi virano sul generone (ormai per lo più in rosso-giallo) e l'autocompiacimento da parata è il segno dominante.
Il segno non di un'Italia fresca e vogliosa di fare, che ha qualcosa da dire e ambiziosamente lo vuole affermare, ma di un'Italia neo-stantia. Che al posto dell'inutile e farsesca litigiosità stile Ferro contro Fiorello e Morgan versus Bugo, avrebbe bisogno di velocità, proiezione internazionale e rispetto di tempi e dei modi. Non è possibile che la cerimonia di consegna degli Oscar duri 3 ore e 40 minuti, e la finale di Sanremo arrivi fino quasi a 6 ore nel suo viaggio sbrodolato al termine della notte. Ma l'evento dev'essere monstre, il big size deve contenere l'intero galleggiamento.
Ora si dirà che questo Sanremo ha vinto. E le gioiose lacrime (di coccodrillo) di Amadeus, nella conferenza stampa conclusiva di ieri, fungono da suggello del pericolo scampato. Dio Share ha fatto il miracolo e Amadeus è «l'uomo più felice del mondo». Ma il Paese non può gioire granché.

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