L’uomo che non sapeva vincere ha vinto. L’eterno secondo è arrivato primo. Luciano Spalletti, classe 1959, un boomer dunque, di “quelli che alla tua età io ero già sposato con tua madre”, da Certaldo, Firenze, dove nacquero Giovanni Boccaccio e quindi il “Decameron”, è l’allenatore campione d’Italia nel campionato che è il territorio privilegiato dell’amore e dell’odio, il campionato di calcio. Sì, qualcosa aveva pur vinto in carriera, Coppa Italia (plurale: Coppe Italia. Ne ha vinte due con la Roma) e Supercoppa, perfino un paio di scudetti con lo Zenit di San Pietroburgo, scudetti russi dunque, targati Gazprom, gas, oleodotti e oligarchi, e quando lì non era più il calcio sovietico del colonnello Lobanovski e della Dynamo Kiev, quindi, dicevano i critici, che calcio sarà mai?
Roma e Inter
Qui stava sempre per vincere, Luciano Spalletti, in piazze “difficili” ma alla fine succedeva sempre qualcosa: le sue squadre, la Roma un paio di volte, e l’Inter, lasciavano sempre non “una buona impressione e tre punti”, perché i punti erano di più.
Il calcio di Lucio
Piaceva sempre il calcio di Lucio, come lo chiamano gli amici, le “galline del Cioni”, gruppo storico che lì per lì fa pensare agli “Amici miei”, al Conte Mascetti, alle Supercazzole, un po’ sequel da commedia all’italiana di quei “Maledetti toscani” tra i quali Curzio Malaparte lo metterebbe di sicuro. Maledetti, in questo caso, è parola di stima. Che fa riferimento, Malaparte scrisse, a quell’essere “spregiosi”, al manifestato disprezzo nato “non a caso, né da ripicco o vanità, né da orgoglio: ma un disprezzo sentito, e risentito, allegro, ragionatissimo e antico”. E suggerì di carpirne l’evidenza nel guardare come un toscano cammina: “a testa ritta, col petto in fuori e le mele strette”.
Il giovane Spalletti
Come calciatore non lasciò grandi orme: del resto, lo diceva Arrigo Sacchi, rispondendo all’eterna domanda sul non aver mai giocato, che “per essere fantino non occorre esser stato cavallo”. Spalletti è stato un adolescente attaccante e poi un centrocampista, la sola volta, probabilmente, che nella vita ha fatto passi indietro… A 34 anni, stempiato ma non ancora rasato lucido com’è adesso, trent’anni dopo, l’ombra di un pizzetto che sa di Mefistofele, Spalletti passò dal campo alla panchina del “suo” stadio, il “Castellani” di Empoli, dove aveva giocato in casa nelle ultime due stagioni, patron e presidente l’amico Fabrizio Corsi, gran conoscitore di calcio e calciatori, magari uno delle “galline del Cioni”, un cerchio magico che fa capo a “La Rimessa”, la tenuta agricola regno di Lucio a Montaione, dove la papera Biancaneve si nutre a biscotti, i vini si chiamano calcisticamente (il più gustato? “Rosso Diretto”, ma ci sono anche “Contropiede” e “Tra le linee”, specialità della casa…), i cavalli scalpitano (li tiene perché in campo bisogna trottare, ha detto), le maglie dei calciatori sono tante e in bell’ordine (ce n’è di tutti e di Totti, quella di De Rossi tra le preferite). Quell’Empoli, dove fu chiamato per salvarlo, scalò in breve l’Everest della Serie A. Poi venne il trentennale percorso: la Samp, il Venezia, l’Udinese, l’Ancona, il ri-Udinese, la Roma, lo Zenit, la ri-Roma, l’Inter e poi l’amata Panda prese l’autostrada del sole e uscì a Napoli. “Nella vita - ha detto una volta - o sei quello che conduce o sei il passeggero”. Non c’è dubbio che Spalletti stia al volante: della Panda, di Kvaratskhelia, di Osimhen, di Di Lorenzo (occhio, capitano: ogni tanto l’autista con il capitano sbanda…), del Napoli, di Napoli, dello scudetto.