Libertadores, una finale sterilizzata: tante parole, poco calcio

Libertadores, una finale sterilizzata: tante parole, poco calcio
di Marco Ciriello
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Lunedì 10 Dicembre 2018, 12:02
Sotto le luci del Santiago Bernabéu, a diecimila chilometri di distanza dal legittimo campo che doveva ospitarla, il Monumental di Buenos Aires, strappata alla violenza e ai poveri, la finale di Copa Libertadores si è finalmente giocata. Una finale all'estero, che ha avuto bisogno di un paese differente per giocarsi, d'altronde carne e giocatori sono prodotti di esportazione argentina come ha scritto Jorge Valdano. Una vera e propria abdicazione del sogno calcio-sovranista argentino, che racconta limiti e difficoltà politiche e organizzative. Ha perso l'orgoglio di un paese che ne ha fatto bandiera, in funzione di una maggiore organizzazione, quella consolidata di un grande club, il Real Madrid, e di un paese, la Spagna, che ha saputo e sa fronteggiare violenze anche maggiori, avendo conosciuto l'Eta prima e il terrorismo islamico poi. Riportando in campo, quella che era e doveva rimanere una grande partita di calcio e nulla più, e che a tratti è sembrata l'inizio di una guerra del futbol, come quella tra Honduras e Salvador che raccontò Ryszard Kapuciski, ma era il 1969. Non potendo tirar giù gli aerei con i raggi gamma, non disponendo di missili, le parti peggiori delle due tifoserie si sono dovute accontentare del calcio, così abbiamo finalmente visto i difensori che tiravano giù gli attaccanti e viceversa, nei limiti del gioco, come ha fatto Lucas Pratto su Pablo Pérez, o Dario Benedetto su Javier Pinola.

Seppure in una partita sterilizzata, alla fine hanno vinto le emozioni, abbiamo sentito fischiare i palloni quando entrano in porta (cit. Gigi Radice), ma non abbiamo visto del buon calcio, piuttosto delle giocate elementari: il gol del Boca Juniors è arrivato su contropiede e due errori, quasi uno scambio di favori per come il River Plate si era presentato in area. Anche il pareggio di Pratto è figlio dell'immobilità della difesa del Boca che si fa riprendere ancora, fino a che non arrivano Quintero e poi Martinez. Sono mancate le grandi giocate e i sistemi di gioco, meglio quello del River, abbiamo visto un calcio bambino, contratto e nervoso, che fa dire: molto rumore per nulla. Con l'aggiunta di un arbitraggio surreale, Andrés Cunha non ha visto un rigore e si è inventato delle risposte da realismo magico in almeno altre occasioni. Quattro convocazioni, due partite, un uragano, degli scontri assurdi, il salto dell'Atlantico, i supplementari e poco calcio. Più parole che pallone. Più fuori che dentro il campo. Alla fine la Superfinal si è trasformata in un apologo di tutti i problemi del calcio argentino. Tra polemiche, attesa e noia, palloni alla viva il parroco, un ping pong senza il pragmatismo maoista, ha vinto lo sfinimento.
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